Corriere della Sera, 25 maggio 2024
«Provate che significa essere un lavoratore autonomo»
Scrivo con un po’ di vergogna e di sofferenza ma anche per bisogno di verità. Leggo spesso rivendicazioni di dipendenti costretti al pagamento delle tasse chiedere limitazioni sui servizi da offrire a chi non paga le tasse o maggiore severità nei confronti degli autonomi. Vorrei che provassero la fatica che da 30 anni devo affrontare quotidianamente per conciliare la fedeltà fiscale con le sfide che la vita ci pone: in caso di malattia le giornate lavorative perse non sono coperte e, se non si vuole perdere il lavoro e la clientela, bisogna tornare al lavoro. Oppure capita di dover assistere un proprio familiare, sempre a discapito del proprio reddito, visto che la clientela quando trova chiuso si rivolge altrove. A questa riduzione del reddito non corrisponde una proporzionale riduzione delle incombenze visto che ci sono tasse e costi fissi, tipo commercialista, affitto, utenze. A fronte di ciò, dichiarando sempre e comunque i propri redditi, ci si trova nell’impossibilità di far fronte puntualmente a tutte le incombenze e si accumulano debiti dovendo scegliere tra puntualità e sopravvivenza (propria e della famiglia). La prospettiva è continuare così fino a 69/70 anni o più perché nonostante i contributi pagati (in ritardo, con sanzioni e interessi) la pensione che maturerò raggiungerà a fatica il requisito di 1,5 volte la minima. Fatico ad accettare critiche da chi dispone di auto aziendale e di benefit anche se già gode di stabilità reddituale e di garanzie lavorative. Io non ho la certezza dei miei redditi e soffro nel vedere che si perpetua il cliché del lavoratore autonomo furbo che si arricchisce sulle spalle degli onesti dipendenti.
G. C.