La Stampa, 25 maggio 2024
Intervista a Marcello Flores
«Una storia d’insieme», scrivono i due storici Marcello Flores e Mimmo Franzinelli introducendo il loro libro Conflitto tra poteri (Il Saggiatore) su politica e magistratura nell’Italia repubblicana, che raccontano come questione non solo istituzionale. Continuità e rotture, separatezza e commistioni, dilemmi costituzionali e romanzo popolare. La ricostruzione si alterna a flashback su una decina di “processi del secolo” che hanno segnato l’immaginario collettivo, da Montesi a Tangentopoli, da Fenaroli a Cucchi.
Professor Flores, il primo nome che compare nel libro è Gaetano Azzariti, un magistrato atipico. Perché?
«Anche se non ha mai svolto un ruolo nei tribunali ma ha operato soprattutto nel ministero, era un magistrato. Non lo fosse stato, non avrebbe potuto fare il presidente del Tribunale della razza. Lo abbiamo scelto perché è stato il simbolo (forse il migliore dal punto di vista della qualità di giurista) della difficile e contraddittoria transizione tra il fascismo e la democrazia».
Perché contraddittoria? Prevalse la continuità o la discontinuità?
«Entrambe le cose, per decenni. Le forze conservatrici, tra tutte la Dc degli anni ’50, utilizzarono la continuità per evitare che le grandi novità riformatrici della Costituzione potessero concretizzarsi. Non soltanto su questioni più direttamente politiche come il testo unico di pubblica sicurezza, ma su un’idea del mondo ancorata alla mentalità clerico-fascista ancora presente e anni luce distante dalla sensibilità della società».
Gli anni del processo Montesi. Cambiò l’immaginario collettivo?
«Per la prima volta la politica si trovava coinvolta, sia pure indirettamente, con questioni di sesso e droga, coinvolgenti la Dc, il partito più moralista e bacchettone, ma in cui erano in corso lotte di potere che avrebbero utilizzato proprio quegli eventi per fare spazio alla generazione più giovane e liberarsi di statisti anziani come Piccioni. Fu un corto circuito che scosse l’opinione pubblica e su cui abbiamo trovato la testimonianza di un cronista d’eccezione, Garcia Marquez».
Quale fu l’effetto del Diario di un giudice di Troisi, uscito nel 1955?
«Troisi fu lasciato abbastanza solo, accusato apertamente dalla Dc e dai conservatori dentro la politica e dentro la magistratura. A partire dal ministro della giustizia Moro e dal presidente della Cassazione Eula: uno coerente antifascista, l’altro ex fascista non pentito».
Nessuno lo difese?
«Giuristi di area liberalsocialista. Il suo caso lasciò le cose come stavano, non insegnò nulla, non a caso venne ripreso solo tra fine ’60 e inizio ’70 dalla nuova leva di magistrati e anche di scrittori».
Quando nasce Magistratura democratica ed entrano le donne: con quali effetti?
«Dirompenti nel lungo periodo perché cambiano, sia pure in modo contraddittorio e non lineare, le consolidate strutture di potere e di complicità tra vertici della politica e della magistratura».
Oggi la magistratura è prevalentemente femminile.
«Ma resta il problema che le donne, ormai in maggioranza, continuano a essere fortemente discriminate nelle posizioni apicali: la mentalità che non le voleva ha pesato tantissimo e per troppi anni ancora».
Da Fenaroli a Braibanti: da un grande processo popolare – soldi, lacrime – a un grande processo politico: omosessualità, destra e sinistra.
«Fenaroli fu il primo grande processo mediatico, con l’Italia divisa tra colpevolisti e innocentisti, ma non ebbe alcun retroterra politico, segnò l’attenzione sempre più coinvolta del pubblico per le questioni giudiziarie e i processi. Braibanti fu invece un processo moral-politico, in cui la sinistra, simboleggiata da Braibanti, era vista come corrotta e corruttrice sulla base di articoli del codice fascista che verranno poi abrogati».
Un passaggio d’epoca?
«Il momento di svolta e scontro tra una società che sta conoscendo una modernizzazione vera e la politica e la giustizia ancorate a un moralismo da anni ’40 condiviso dal mondo conservatore e reazionario».
Anni ’70: terrorismi, strategia della tensione, trame internazionali, che ruolo gioca la magistratura?
«Anche qui con forti chiaroscuri: con aperte complicità con il potere politico, nei depistaggi, nella presenza nella P2 ma anche col sacrifico di un numero enorme di magistrati caduti in nome dello stato di diritto. E di altri che hanno cercato pur con difficoltà di cercare la verità (storica e processuale) rischiando carriera, promozioni e isolamento».
Dopo il terrorismo, la mafia: i giudici eroi degli anni ’80. È stato un errore?
«La politica, e anche la società, ne hanno fatto insieme il simbolo e il capro espiatorio. La divisione interna alla magistratura, dal punto di vista delle idee politiche ma soprattutto dell’idea di giustizia, aveva almeno tre-quattro opzioni e alla fine trovava un punto d’accordo nella rivendicazione corporativa di cui il Csm è diventato sempre più l’espressione».
Perché Mani Pulite, esaltata anche all’estero come rivoluzione giudiziaria, da voi è definita «ciclone in un bicchier d’acqua»?
«Perché quella rivoluzione giudiziaria, che poteva e doveva esserci, in realtà non si è verificata, lasciando le cose identiche o peggiori nei due decenni successivi».
Per colpa di chi?
«Il prestigio conquistato è stato accompagnato da un protagonismo mediatico che si è rivelato poi spesso un boomerang e ha spinto soprattutto alcuni pubblici ministeri a ritenere questo aspetto, e i legami spesso non ortodossi con la stampa, fondamentale, esagerando sempre più la propria esposizione ma anche diminuendo la propria credibilità come promotori di giustizia».
Berlusconi e i pm: chi ha vinto, alla fine?
«La guerra dei trent’anni di Berlusconi è stata contro alcuni magistrati, anche se ha cercato di ridimensionare l’intera categoria e di rimetterla, almeno in parte, sotto il controllo o il ricatto della politica. In realtà non ha vinto nessuno, ma hanno perso l’Italia, la credibilità della giustizia, la responsabilità della politica e il prestigio della magistratura. Politica e Magistratura si sono alleate: conflitto in superficie, nessuna riforma».
E oggi? Vero conflitto o simulacro retorico?
«Lo vediamo in questi giorni, che è vero: anche se si focalizza su questioni minori (la separazione delle carriere è inutile, anche se in linea teorica sarebbe giusta) e interviene poco e male sulle questioni che meriterebbero riforme coraggiose. Prima fra tutte quella del sistema penitenziario».
Com’è cambiata l’identità profonda della magistratura?
«Oggi non c’è un’identità profonda, se non sul versante dell’autonomia e della difesa dell’indipendenza. Dagli anni ’60 i magistrati discutevano, anche litigando, sul loro ruolo, sull’idea di giustizia, su come attuare la Costituzione. Oggi la discussione sembra più sull’organizzazione interna, sulle gerarchie, sulla composizione degli organi dirigenti, ripiegata all’interno della corporazione».
C’è da rimpiangere l’ideologia, le correnti?
«Proprio oggi servirebbe una spinta ideale analoga a quella che poneva tra gli anni ’60 e gli anni ’80 i magistrati in un confronto anche aspro tra loro». —