Il Messaggero, 25 maggio 2024
Su Matteotti
«La lezione più attuale che Matteotti offre alla riflessione moderna mi pare essere rappresentata dal suo costituirsi (nella vita come nei suoi saggi) come «custode della legalità processuale» contro gli «abusi del potere», di qualsiasi potere, anche di quello giurisdizionale.
Qui Giacomo Matteotti sembra davvero parlare all’oggi del diritto e della giurisprudenza: vi è da chiedersi appunto – se la comunità dei giuristi a cui appartengono anche i giudici, abbia adeguatamente custodito una legalità processuale. Si pensi, ad esempio, alla ridefinizione del perimetro della valutazione della prova nell’udienza preliminare cui si è assistito nella giurisprudenza recente: a fronte di un testo legislativo (l’art. 425 c.p.p.)che imponeva il proscioglimento «anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio», la giurisprudenza ne ha offerto una lettura riduttiva, volta ad escludere le sole imputazioni «azzardate», prive dei requisiti minimi richiesti dall’ordinamento per l’instaurazione del processo; tanto che il legislatore, da ultimo con la riforma Cartabia, ha sentito la necessità di intervenire su questa disposizione chiarendo che il proscioglimento si impone «anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna». Analoghe osservazioni potrebbero essere sviluppate sulla giurisprudenza maturata in relazione al requisito dell’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, previsto dall’art. 267 c.p.p. per l’autorizzazione delle intercettazioni. Una littera legis rispetto alla quale sarebbe stato sufficiente che l’interpretazione giurisprudenziale portasse alla luce quanto già contenuto nel significante linguistico («l’insieme delle parole che compongono una disposizione, il carapace linguistico della norma» per utilizzare la felice espressione di Antonello Cosentino in Sezione Unite Civili 25/05/2021, 24413/21), e invece come noto essa si è persa via via sino alla rassegnazione, essendo potenzialmente tacciato di poca aderenza alla realtà chi non obnubila tale inciso normativo.PREVEDIBILITÀNon diverso è il caso, contemplato dall’art. 270 c.p.p., dell’utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte, dove sulla nozione di «altro procedimento» si è assistito al formarsi di un diritto giurisprudenziale, di ostica prevedibilità interpretativa se non caratterizzato da evidenti overruling, che significativamente, anche qui, ha determinato l’esigenza di interventi del legislatore volti a recuperare tassatività alla previsione.Da qui l’importanza attuale del metodo ermeneutico di Matteotti e del valore che egli attribuisce alla certezza del diritto, in particolare nel suo saggio sulla sentenza penale. Matteotti muove sempre dalla lettera e dalle finalità delle norme di legge con il proposito di «ricostruire e classificare gli istituti entro un sistema il più possibile unitario e armonico, per auspicabile disegno dei codificatori o grazie al soccorso della ragione ordinante della dogmatica». Egli è consapevole dei limiti di alcuni degli esponenti del tecnicismo giuridico dell’epoca, ma essi vengono stigmatizzati nel loro limitarsi alla «glossa che nulla chiarisce» perché ripiegati su casi particolari per i quali offrono soluzioni momentanee e di comodo.IL VALOREInsomma, l’oggetto della critica di Matteotti sembra essere quella che potrebbe chiamarsi la «retorica della tecnica», il dogmatismo che impiega astratti concetti elaborati alla bisogna per dare sostegno alle personali opinioni dell’autore che non sa sistematizzare. Tuttavia, egli coglie il valore che hanno i criteri dottrinari per spingersi «senza offesa alla legge» a raggiungere quella «unità sostanziale» che deve sempre essere preferita all’«arbitrio delle più diverse apparenze legali». Questo perché, al centro delle preoccupazioni di Matteotti come giurista, sta il «principio di legalità» in cui esalta il vincolo alla più esatta lettura del testo normativo come nucleo centrale della sua visione liberale del diritto penale, nell’idea cioè che il limite al potere insito nella conformazione legale della norma incriminatrice sia l’«ultimo baluardo della libertà individuale». In questo però egli è ben consapevole che non basta, per ciò, la volontà del Parlamento (espressa nella legge), ma è necessaria un’istanza ultima che assicuri l’uniforme interpretazione e applicazione della legge.LA CASSAZIONEDa qui il suo interesse per la Cassazione, considerata «massimo istituto processuale» deputato a «garantire la legalità del procedimento», ma anche per il crisma di definitività del giudicato, che nella sua visione rappresenta non un vuoto «artificio formale», ma una sorta di «necessità sociale» a che l’accertamento della colpevolezza dell’imputato non sia rimandato all’infinito, lasciando l’imputato in una condizione di sospetto e tutti in una perenne situazione di incertezza.Insomma, per Matteotti l’uso di tecniche eversive del principio di legalità e l’adozione di soluzioni interpretative contra legem rischiano di produrre un danno peggiore del preteso rimedio che le stesse vorrebbero porre ad eventuali iniquità emerse nei singoli casi concreti, perché una volta che venga infranto il vincolo della legge si finirebbe consegnati alle personali concezioni della giustizia e della verità dei giudici. Così, nessun criterio potrebbe arginare il numero delle eccezioni alle regole prestabilite, con il prodursi di ingiustizie peggiori di quelle derivanti dal rigoroso rispetto delle regole formali. Come egli nota nel saggio del 1917 sulla Nullità assoluta della sentenza penale, pericolosa è la breccia, anche per la difficoltà di un limite.Ma è dal punto di vista della tutela costituzionale della libertà che è più utile riflettere sul monito di Matteotti. Anche oggi e mai come oggi si avverte la tentazione di superare i rigidi formalismi giuridici per dare spazio a quella che viene ritenuta la «giustizia del caso concreto». Ancor più oggi, rispetto all’epoca di Matteotti, risulta difficile ricostruire lo stesso testo normativo di riferimento e, quindi, il vincolo che ne deriva: per la mole della produzione legislativa ed il rapido succedersi delle discipline normative nel tempo; per l’incidenza e l’intreccio di fonti nazionali e sovranazionali; per il ruolo che riveste il cd. «diritto giurisprudenziale» delle diverse Corti (in primis la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea) in presenza di confini sempre meno evidenti tra interpretazioni conformi, «non applicazione» del diritto nazionale contrastante (con il diritto dell’Unione direttamente efficace) e necessità per il giudice comune di sollevare questioni di legittimità costituzionale. Ostica risulta talvolta la stessa individuazione e previsione della disciplina in concreto applicabile, per la sempre più accentuata tendenza della giurisprudenza comune a costituirsi come «diritto giurisprudenziale», assistendosi sempre più spesso a casi in cui i presupposti che le sentenze ricavano dalla legge penale sono sovradeterminati rispetto al testo delle disposizioni; essi dipendono, cioè, in modo decisivo da elementi extra-testuali ed extra-normativi cui il giudice-interprete risulta particolarmente sensibile. Un intreccio inestricabile tra diritto formale e diritto giurisprudenziale.LE CONSEGUENZECiò incide non solo sulla «prevedibilità dell’applicazione», ma altresì sulla stessa «prevedibilità dell’interpretazione». Né risulta sufficiente, a limitare questa imprevedibilità, una disposizione come quella di cui all’art. 618, comma 1-bis, c.p.p. limitata peraltro a prevenire i contrasti tra Sezioni semplici e Sezioni unite della Corte di cassazione. Infatti, in assenza di un sistema (come quello consolidatosi nei sistemi di common law) di vincoli al rispetto del precedente e al modo di potersene discostare, l’overruling o il consolidarsi di leading precedents risulta sostanzialmente rimesso all’incontrollabile e spesso imprevedibile atteggiarsi della sensibilità giudiziale a certi orientamenti.ISTANZEDel resto, non può sottacersi che sembra più forte oggi rispetto all’epoca di Matteotti la tendenza degli interpreti a farsi portatori di istanze etiche che si intendono far valere con il diritto, fino a rendere sempre più incerti e porosi i rapporti tra politica e giurisdizione o tra diritto e morale. Un sovrapporsi di ruoli che finisce per rinnovare mai sopite tensioni e causare difficoltà nell’individuazione di responsabilità correlative ai poteri esercitati, necessarie in uno Stato di diritto che voglia assicurare un adeguato sistema di contrappesi tra i poteri. Un inciso, tra parentesi: tutto ciò sta rischiando di degenerare in una pericolosa serie di conflitti di “potere”, di polemiche tra i “poteri” con distruttivi e reciproci effetti delegittimanti delle diverse istituzioni, a tutto detrimento dei cittadini e del servizio-giustizia che deve essere loro reso.In momenti come questi, dovrebbe risuonare nelle nostre orecchie il già citato monito di Matteotti: pericolosa è la breccia, anche per la difficoltà di un limite, perché nessuno possiede interamente la verità, tanto meno quella morale, e il vincolo della legge contribuisce a definire il limite del giuridico, a tutelare tutti cittadini dai possibili abusi, impedendo che qualcuno possa far prevalere la propria opinione di giustizia e verità, sempre legittima ma anche sempre discutibile, nella convinzione di esserne il custode assoluto.Fabio Pinelli* Intervento del Vice Presidente del C.S.M. alla presentazione presso la Camera dei deputati del volume a cura di Daniele Negri «Giacomo Matteotti tra diritto e politica».