Il Messaggero, 25 maggio 2024
Intervista a Gabriele Lavia
Da almeno dieci anni Gabriele Lavia parla di se stesso come di un uomo che ha varcato la soglia che separa la maturità dalla vecchiaia. Ma solo oggi si dice pronto a interpretare Re Lear: «Non tanto perché mi sento in grado di affrontare il personaggio, ma semplicemente perché ho l’età anagrafica» ironizza l’attore e regista, 81 anni. Lunedì sera (alle 19), al Teatro Argentina di Roma, il decano del teatro italiano, uno dei maestri più amati e riconosciuti della nostra scena, farà assieme al pubblico una tappa di avvicinamento al Re Lear di Shakespeare, lanciandosi nella lettura integrale di quest’opera umanissima e dolente che, con la sua regia, aprirà in autunno la nuova stagione del Teatro Argentina (dal 27 novembre). Meta ineludibile di ogni grande interprete, Lear diventa così varco esistenziale, strumento di indagine interiore, antro psicoanalitico: «Il vecchio Lear mi permette di guardarmi dentro».
Guardando dentro, cosa vede?
«Un attore sufficientemente incosciente da mettersi in testa di riuscire a fare Re Lear. Però non sono pronto. Sono solo abbastanza decrepito da poter interpretare personaggi come Lear o Edipo a Colono».
Che cosa la spaventa di Lear?
«L’errore in cui cade».
Ovvero?
«Quello di ammettere di essere vecchio. Da vecchio, decide di dividere il regno in tre parti e come prova della fedeltà delle figlie chiede una dichiarazione. Goneril e Regan diranno cose molto lusinghiere, Cordelia invece non dice niente, anzi cerca di aprire gli occhi al padre».
Quindi il vecchio padre cade nella trappola del logos?
«Si lascia circuire dalle parole, quindi dal teatro. Anche Cordelia cade nell’errore, non dicendo nulla».
Ha già scelto le attrici che interpreteranno le sue figlie?
«Sì, saranno Federica Di Martino (Goneril), Silvia Siravo (Regan) ed Eleonora Bernazza (Cordelia)».
Che valore dà lei alla parola?
«Facendo teatro, ho dovuto trafficare tutta la vita con le parole, cercando di misurare anche il loro lato ingannevole».
Che tipo di scena ha immaginato per il “Re Lear”?
«Immagino degli attori che arrivano sul palcoscenico dove trovano vecchi bauli da cui tirano fuori dei vestiti impolverati. È una scena tutta storta».
Non solo ne “Il berretto a sonagli” di Pirandello, ma anche con “Un curioso accidente” di Goldoni, per citare gli ultimi suoi spettacoli, aveva immaginato una scena capovolta, sbilenca. È così che vede il mondo?
«È il mondo visto da un uomo di quasi 82 anni: un punto di vista estremo, decentrato».
Perché da almeno dieci anni va dicendo di essere vecchio?
«Per allontanare lo spauracchio della vecchiaia, che è una cosa terrificante. So di essere ancora in forma, anche perché non bevo, non fumo, non mi drogo. Non posso però che guardare la mia età con orrore».
C’è stato un momento in cui ha avvertito di aver varcato la soglia dalla maturità alla vecchiaia?
«Ma io non sono stato mai maturo. Per questo civetto sulla questione dell’età».
Eppure, Shakespeare sostiene che “La maturità è tutto” ("Ripeness is all").
«Questa battuta arriva quando la tragedia si è già compiuta. In tutte le opere, Shakespeare affronta il problema dell’essere: l’essere o non essere nell’Amleto, l’essere altro in Otello, l’essere vecchio in Lear. Alla fine del King Lear c’è una riflessione sul fatto che non si può pretendere di essere eterni».
Aver sposato una donna molto più giovane (l’attrice Federica Di Martino, che di anni ne ha 50), ha qualcosa a che fare con questo suo terrore?
«È vero che Federica è più giovane, ma è una donna molto matura, a differenza di me. Ormai stiamo insieme da più di 20 anni, anche se ci siamo sposati solo nel 2015 a Firenze, durante le prove de I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Non avevamo avvisato nessuno, neanche i miei figli».
A proposito dei suoi figli, Lorenzo e Lucia fanno il suo stesso lavoro. Un destino annunciato?
«Su di loro posso esprimere solo giudizi di tipo artistico. Hanno un talento innato e non era affatto scontato».
Con i suoi nipoti inventa giochi teatrali?
«No, poverini, perché rovinarli?».
Invece lei ha cominciato proprio con il classico teatrino dei burattini, nella casa di sua nonna, a Catania.
«Ho dei ricordi bellissimi della mia infanzia in Sicilia: la spiaggia con la sabbia bianca, il burrone della lava, la casa sempre affollata di artisti (il papà di mia nonna era un grande musicista), io che gioco con i burattini e faccio tutte le voci».
Ha qualche rimpianto?
«Non posso avere rimpianti, ho vissuto la vita che volevo, nel teatro. E poi io continuo a studiare. Ogni sera prima di andare a letto studio almeno due ore, non solo i testi che devo imparare a memoria, ma la filosofia, la storia dell’arte, i classici greci».
Cosa avrebbe fatto se non avesse fatto teatro?
«Avrei voluto creare i cartoni animati, ma poi ho capito che le tecniche di animazione cambiavano troppo rapidamente».
Disegna ancora?
«Certo, spesso disegno i costumi di scena e poi passo gli schizzi al costumista».
C’è qualcosa di cui oggi ha paura?
«Sì, fare la regia del Re Lear».