il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2024
L’invasione degli ultracorpi dai culturisti alle esili étoile
Ultracorpi – La ricerca utopica di una nuova perfezione, in libreria per minimum fax, è “un’indagine sui corpi modificati artificialmente”: i corpi ipertrofici del body building e i corpi assottigliati della danza. Lo stesso volume firmato da Francesca Marzia Esposito è un ultracorpo di carta perché dietro le fattezze del saggio si mimetizza un memoir espanso.
L’autrice racconta e si racconta nel doppio ruolo di cronista e di testimone. È il suo vissuto autobiografico che le consente di esplorare l’inferno dei corpi che si deformano. Sulla scorta di un trauma infantile lei sceglie la magrezza e quindi la danza, il fratello l’enormità e quindi il body building. Entrambi vinti da una ossessione estetica: “Lui si è sentito forte ricoperto dai muscoli, io mi sono sentita inattaccabile svuotata delle carni”. Sono pagine sulle quali grava una ipoteca emotiva: “Ho passato molti anni a farmi schifo ogni sera, prima di dormire… Ero sempre in body e calzamaglia, gli specchi impietosi davanti, e i corpi delle altre erano sempre migliori del mio”. Esposito contempla le due discipline come energie sportive speculari. Se la danza forgia i corpi per renderli performativi, il culturismo usa l’esercizio fisico per creare una scultura vivente. Quella inseguita dal culturista è “una danza che invece di espandersi nell’aria, si accorcia, si addensa e ricade su di sé in maniera statica”. Non è un caso che Arnold Schwarzenegger, icona del body building, prendesse lezioni di danza classica per imparare a muoversi in maniera armonica. Proprio grazie a Schwarzy, i palestrati sino ad allora ghettizzati come fenomeni da baraccone diventano seduttivi. Se prima le palestre raccoglievano gli scarti della società, perché sollevare pesi era un modo per emanciparsi, con il futuro divo di Hollywood comincia una stagione glamour. Tuttavia – basta guardare alle parabole degli atleti che competono per la palma di Mr. Olympia – i corpi abnormi sono reputati sinistri o fatui, vocati a una spirale di autodistruzione (capitata per esempio al brasiliano Segato, star di TikTok, morto a 55 anni perché si iniettava olio nei muscoli per gonfiarli a dismisura).
Nella danza i corpi prosciugati sono spesso al laccio di un pregiudizio altrettanto radicato: ascetici e dunque altezzosi. Roberto Bolle, “discepolo” del maestro tartaro Rudolf Nureyev, sconta la nomea di esecutore freddo, la cui impeccabilità tecnica suggerisce fatalmente il “desiderio di voler somigliare all’ideale versione di noi stessi”. L’autrice puntualizza: “Semplicemente danza il vuoto. Ogni ballerino danza un vuoto”. Ecco allora che la perfezione vagheggiata è tutt’altro che un appetito narcisistico. Più verosimilmente una mano di vernice per occultare voragini interiori.
Rimodellare il corpo è un tentativo di dominare le fragilità della psiche e sottrarsi alla tirannia della norma. Specie per le donne, una fatica di Sisifo. Se è vero, per richiamare Simone de Beauvoir, che “il corpo della donna è un corpo sociale prima ancora di essere un corpo vissuto”, è altrettanto vero che negli anni della formazione le bambine si ritrovano a baloccarsi con la Barbie, paradigma di “pin-up che rappresenta il desiderio di piacere al mondo maschile”.
Bellezza e sobrietà virtù imprescindibili del “secondo sesso”? Emblematico il caso della culturista nera Iris Kyle, il cui fisico iperbolico è stato esecrato perché non più sinonimo di “femminilità”. Eppure l’atleta non ha fatto che inseguire quegli standard di vittoria “scopo della nostra vita postmoderna”. Traguardo che nel mondo della danza ha un riverbero drammatico, vedi gli scandali legati all’anoressia. L’obiettivo è tenere sotto controllo il peso perché “la sensazione di essere superiori alle privazioni crea un delirio di onnipotenza”. Una “leggerezza” che la compianta Carla Fracci ha incarnato come nessun’altra e che oggi sconfina nella “incorporeità virtuale” perché “il valore assoluto è possedere non più la materia ma l’immagine corrispondente”.
Ecco dunque l’orizzonte contemporaneo: “Se siamo riuscite a diventare belle, magre e perfettamente smacchiate grazie ai filtri applicati, è così che vogliamo diventare nella realtà… Vogliamo scontornarci dal riquadro e diventare uguali al nostro avatar”. Lo schermo diventa come lo specchio di casa (basti pensare a coloro che trasformano i propri disturbi alimentari in un Truman show quotidiano sui social) e la “forza compensativa del virtuale” marca una volta di più (per richiamare il saggio di Noreena Hertz) il nostro Secolo della solitudine.