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 2024  maggio 25 Sabato calendario

ORSI&TORI


Mi scrive l’amministratore delegato di Borsa italiana, Fabrizio Testa:
«In Orsi & Tori di sabato 18 maggio lei solleva il tema vitale per un paese capitalistico qual è l’Italia, dell’esistenza e competitività del mercato dei capitali. Giustamente ricorda come i governi che si sono succeduti dalla fine della Seconda guerra mondiale non abbiano saputo finora risolvere il paradosso di un Paese che non riesce a convogliare l’enorme risparmio privato verso le proprie aziende, favorendo la crescita dell’economia reale. Un paradosso che oggi si ripropone a livello europeo, come sottolineato recentemente dal Rapporto Letta. Per questo, Borsa Italiana e Euronext collaborano attivamente con i regolatori e i politici nazionali ed europei per avere regole sempre più armonizzate che facilitino la quotazione e l’investimento in Borsa.

Vorrei solo precisare che molte aziende che hanno la loro sede legale nei Paesi Bassi o altrove, restano quotate a Milano. La decisione dietro a un delisting, infatti, è diversa caso per caso, e quasi mai riguarda la sede legale della società. Non si spiegherebbe altrimenti la recente tendenza ai delisting che osserviamo in tutti i mercati europei, Regno Unito in testa. Accolgo con favore i tre punti che l’editoriale pone come necessari per non marginalizzare l’Italia e i suoi mercati. È un obiettivo che mi vede impegnato ogni giorno, insieme ai colleghi di Euronext e ai partecipanti del mercato. Sebbene abbiamo armonizzato le regole di quotazione e trading dei nostri sette mercati, la modifica delle norme societarie e fiscali spetta alla sovranità di ciascun Paese. Collaboriamo con i decisori nei Paesi membri e in Europa e continueremo a farlo, come in Italia possono testimoniarle gli autorevoli esponenti delle Autorità di Vigilanza e di Governo che lei cita nel suo editoriale. Abbiamo costruito il più grande bacino di liquidità d’Europa, con 2000 aziende quotate e 7.1 triliardi di capitalizzazione aggregata. Sono il doppio di quella di Londra e tre volte quella di Francoforte. Si tratta del più ambizioso progetto di consolidamento dei mercati e delle strutture di post-trading a oggi esistente in Europa. Abbiamo un modello federale, in cui ogni Paese partecipa con eguale importanza e che può ulteriormente crescere. Infine, una parola sul Centro Dati. Il fatto che sette Borse europee e gli operatori connessi da tutto il mondo utilizzino tecnologia e persone italiane per l’attività più sensibile che ci sia in un mercato, credo debba essere motivo di ragionevole orgoglio. A questo si aggiunge il fatto che Euronext ha messo al centro della propria strategia di sviluppo e consolidamento della compensazione in Europa, la Cassa di compensazione italiana, al posto della Cassa basata a Parigi e di proprietà britannica. Continueremo a fare del nostro meglio, in Italia come in Europa, per dotarci di un’infrastruttura di mercato sempre più efficiente e competitiva, in cui emittenti, operatori, investitori e i tanti talenti che il nostro Paese esprime, possano partecipare da protagonisti alla costruzione del mercato unico europeo dei capitali».

Ringrazio naturalmente il dottor Testa per aver voluto dare questo contributo a uno dei problemi principali, se non il principale, dell’economia italiana (ed europea), che, come egli stesso conferma, è il fatto che il grande risparmio italiano non viene investito nelle aziende italiane quotate in borsa se non in misura insignificante. Euronext è sicuramente un tentativo di risolvere anche il problema italiano in chiave europea, ma per ora i risultati sono risibili. Ha fatto bene il ceo Testa a ricordare che in chiave europea Cassa di compensazione per Euronext è la Cassa di compensazione italiana; così come è stato giusto ricordare che il Centro dati per le sette Borse Euronext e per gli operatori connessi da tutto il mondo è in Italia; quindi, che le sette Borse Euronext usano tecnologia italiana.
Per carità, attività altamente positive ma che non risolvono il problema che è stato dibattuto anche al convegno di AssoNext tenuto mercoledì 22 a Montecitorio, dove pure uno sforzo il governo si è impegnato a farlo, annunciando la costituzione di un fondo dei fondi per investire nelle pmi quotate con una dotazione di 500 milioni da parte di Cdp, a cui deve aggiungersi un pari investimento privato.

Meglio di niente; ma il problema principale è un altro, nonostante il ceo di Borsa Italia ricordi, giustamente, che Euronext ha 2 mila società quotate e 7,1 trilioni di capitalizzazione, cioè due volte della Borsa di Londra e tre volte quella di Francoforte.
Ecco, il problema è qui: come si fa ad avere in una borsa europea con solo sette Paesi che la compongono e con fuori Francoforte, che è la maggiore borsa dell’Ue e del paese di gran lunga più importante nel campo economico, oltre ad avere casi come la Borsa di Spagna che è integrata addirittura con quella della Svizzera.
Dice il ceo Testa: è vero, che si assiste al trasferimento della sede legale di varie società italiane e anche di altri Paesi in Paesi con trattamento fiscale e normativo molto più favorevole, ma in realtà queste società rimangano quotate a Milano. Non tutte: per esempio Exor ha sede legale, fiscale e quotazione ad Amsterdam e comunque il trattamento fiscale e normativo di Paesi come l’Olanda spingerà sempre di più aziende a migrare.

Del resto, non si scopre attraverso le borse che l’Europa è un’opera incompiuta, ma guarda caso in particolare nell’ambito economico finanziario, che era stata la base da cui partirono i fondatori della prima istituzione europea, la Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Cioè, fu l’elemento economico che favorì il primo embrione di Ue. Se l’Italia vuole evitare che il risparmio degli italiani finisca in larga parte a finanziare aziende di altri Paesi, deve avere il coraggio di farsi sentire a Bruxelles sul fatto che Paesi come l’Olanda o l’Irlanda del Nord hanno trattamenti fiscali e normativi da veri paradisi fiscali. O si supera questo problema fondamentale, spingendo anche la Germania a entrare nella Borsa europea, o non ci sarà mai una vera Europa unita.
In questo contesto, comunque, per sviluppare un vero mercato italiano dei capitali e quindi lo sviluppo del tessuto economico italiano, il governo non può limitarsi alla creazione del fondo dei fondi da 1 miliardo (se i privati ci metteranno 500 milioni). Ci vuole ben altro. Ci vuole un netto favore (non solo fiscale) a chi direttamente o attraverso le banche è disposto a investire in Italia, in aziende italiane. Il professor Paolo Savona, che con lucidità rara guida la Consob, che è l’organo fondamentale per un mercato borsistico equo e pulito, ha più volte tentato di spiegare da economista che è necessario partire dalle scuole superiori per far crescere la cultura dell’investimento produttivo. Fino a quando tutto si limiterà a un Fondo da un miliardo per le pmi di Euronext, l’Italia resterà un Paese che non investe il grande risparmio per lo sviluppo delle aziende e del sistema economico. È vero che per l’investimento in azioni c’è la grande concorrenza dei titoli di stato con alto rendimento per contenere il deficit dello stato; quindi, il taglio del debito pubblico con la vendita di immobili che lo stato ha passato agli enti locali e che finalmente, con sagacia e concretezza, il ministro Giancarlo Giorgetti ha annunciato che avverrà, è una via. Ma occorre ancora di più: occorre una cultura dell’investimento in Borsa e quindi un’educazione che parta dalle scuole. Si parla tanto di educazione finanziaria nelle scuole, ma sono tutte parole. Oggi c’è un formidabile strumento per abituare i giovani a investire in borse: lo strumento digitale, per questo Class Editori che è la casa editrice con più impegno verso il mondo finanziario, lancerà presto varie iniziative che aumentino l’interesse e la capacità dei giovani verso la Borsa. Ma occorre anche, come dice Franco Gaudenti, di EnVent Capital Market (non a caso London), che «si allarghi il pool di investitori professionali, oltre a quelli oggi esistenti e a “Secco”, a nuovi soggetti come fondi chiusi (modello UK), holding di investimento, Eltif senza i quali la questione liquidità non sarà risolta e il fattore capitali pazienti non potrà essere attivato».

Quando è stato l’unico momento in cui il concetto di investimento in borsa per lo sviluppo del Paese è arrivato anche ai discorsi con i taxisti? Durante le privatizzazioni, che per entrare nell’euro l’Italia fu costretta a fare. In quegli anni la diffusione di Milano Finanza sfiorò le 300 mila copie. Ma le privatizzazioni italiane sono state uno dei peggiori esempi di attuazione di un grande programma per far entrare nella cultura degli italiani il concetto dell’azione e del dividendo distribuito dalle azioni, per il buon andamento delle società quotate. Purtroppo, furono fatte privatizzazioni senza senso alla prova dei fatti. Una per tutte: la privatizzazione di Stet e Sip. Le telecomunicazioni dello stato italiano erano le più efficienti d’Europa e anche le più innovative. Sip è stata la prima società del settore ad avere un piano di fibra ottica. Ma come fu privatizzato il sistema delle telecomunicazioni italiano? Attuando, in maniera che definire sbagliata è poco, il criterio inventato in Francia del così detto nocciolo duro (noyau dur, in francese): cioè, un gruppo di azionisti che insieme garantivano la stabilità e la guida della società con una quota tale da non incoraggiare il lancio di opa speculative. Bene, il maggior azionista di Telecom fu scelto nel gruppo Agnelli, che aveva circa il 3-4% e che comprò solo lo 0,7% nella privatizzazione. E dalla Fiat fu preso Gian Mario Rossignolo, un disastro gestionale. Finito, anche per responsabilità di quel nocciolo duro inconsistente, nell’opa che fece ricchi finanzieri bresciani d’assalto. Solo le banche ebbero una privatizzazione più ordinata, ma la mancanza di vera cultura dell’investimento azionario degli italiani, favorito, giova ripeterlo, dai ricchi bot, fece perdere quella grande occasione di far diventare l’Italia un paese con la cultura dell’investimento in borsa.

Se non si vorrà continuare a essere un Paese con una cultura inesistente dell’investimento in borsa, che invece può essere la via per far crescere tante delle ottime pmi italiane, occorrerà che il governo, di centro destra o centro sinistra poco importa, vari provvedimenti per investimenti in Borsa inizialmente vantaggiosi sopra ogni altro, perché si crei una reale cultura del risparmio verso le attività produttive. Occorre che in Borsa ci siano almeno mille pmi quotate, quando al secondo mercato di Parigi ce ne sono 500, pur essendo la Francia un Paese di grandi gruppi.
* * *
Microsoft, che di fatto controlla ChatGPT, ha in Cina circa 800 ingegneri, cinesi. È il frutto di due fattori:
1) da un lato sono cinesi che si sono laureati nelle migliori università americane;
2) dall’altro sono ingegneri che hanno studiato in Cina e che nella loro formazione hanno usufruito della prorompente crescita della Cina nella tecnologia. Ora Microsoft sta prendendo in considerazione l’ipotesi di chiedere a questi ingegneri di trasferirsi a lavorare, sempre per l’azienda creata Bill Gates, in altri Paesi.

Da che cosa nasce questa strategia? Dalla preoccupazione che il risultato delle elezioni americane possa portare, con Donald Trump, alla imposizione di tasse elevatissime per i prodotti provenienti dalla Cina. Del resto, in una logica di campagna elettorale, l’attuale presidente Joe Biden, ha già imposto una tassa del 100% sulle auto elettriche assemblate in Usa e ha aumentato dal 25 al 50% la tassa sui semiconduttori cinesi. Figuriamoci che cosa potrà accadere se dovesse vincere Trump, se è realtà che queste ipotesi di Microsoft accadano nel rinnovato dialogo fra Usa e Cina, sostenuto soprattutto dalla responsabile al Tesoro, Janet Yellen, che si è recata due volte a Pechino nell’ultimo periodo, anche quando esplose la questione del pallone spia che i cinesi avrebbero fatto arrivare sul territorio americano. Recentemente la Yellen ha fatto di più: ha organizzato l’abbraccio fra Xi Jinping e Biden a S. Francisco.
E perché lo ha fatto? Perché sa quanto oggi sia importante per l’andamento dell’economia americana un interscambio fluido con la Cina. Ma, come dimostra l’orientamento di Microsoft nel settore della tecnologia, c’è preoccupazione che sia la Cina a chiudere le porte all’America, se vincesse Trump e il trumpismo.

Sia come sia, i programmi di Microsoft sono un cattivo segnale per il mondo intero perché, se si fermasse il rapporto di interscambio fra Usa e Cina, ne andrebbe di mezzo lo sviluppo tecnologico dell’economia di tutto il mondo.
Uno di punti strategici per misurare la crescente tensione tecnologica fra Usa e Cina è tuttavia Taiwan, l’isola dei semiconduttori che il presidente Xi Jinping vorrebbe riannettere alla Cina, essendo autonoma da quando vi si rifugiò Chiang Kai-shek dopo essere stato sconfitto nel 1949 da Mao Zedong. Ma invece un segnale di distensione o, meglio, di equilibrio, viene proprio dall’isola dei semiconduttori: il nuovo presidente appena eletto, William Lai, ha invitato la Cina a un rapporto pacifico, senza però pronunciare il concetto di un’unica Cina, che è il teorema di Pechino. Insomma, teniamo buoni rapporti, ma Taiwan per ora non è parte integrata della Cina. Il mondo deve augurarsi che prevalgano le parole che pronunciò il presidente Mao e che sono state ricordate dal centenario Henry Kissinger che, proprio prima di morire, si recò a Pechino per ricordare cosa ebbe a dire in proposito il presidente Mao: per 100 anni non venga pronunciato il nome Taiwan o Formosa. Di questi 100 anni ne sono passati un po’ meno di 70. Ne restano circa 30. (riproduzione riservata)