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 2024  maggio 24 Venerdì calendario

L’occhio di Cartier-Bresson

All’inizio del documentario, del fotografo che non voleva essere fotografato appare soltanto un’ ombra. Un pallido chiarore illumina la stanza, lasciando intuire la forma del viso, la calvizie, il fisico asciutto. Se si potesse ascoltare la voce originale si conoscerebbe anche la sua voce ma null’altro. «Parliamo di quello che vuole, ma non di me», spiega il fotografo che non vuole essere fotografato, ovvero Henri Cartier-Bresson, al suo intervistatore, Romeo Martinez, direttore della rivista Camera dal 1954 al 1964 e storico della fotografia.
La sagoma in controluce viene inquadrata di spalle. «Il pubblico – avverte Cartier-Bresson – mi vorrà scusare se non lo guardo in faccia, ma il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l’anonimato. È un mestiere che si esercita a bruciapelo, prendendo la gente alla sprovvista e dove non è consentito mettersi in mostra».
Provate infatti a cercare delle immagini in cui sia ritratto il fotografo che è stato definito «l’occhio del secolo» e che ha fondato insieme a Robert Capa quell’incredibile tempio dei reportages che è stata l’agenzia fotografica Magnum. Ne troverete pochissime. A volto scoperto soltanto da anziano. Prima preferiva nascondersi sempre dietro la macchina fotografica. Anche per questo motivo è particolarmente prezioso il documentario Rai con testi di Giorgio Bocca e regia di Nelo Risi Primo piano. Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini, andato in onda una sola volta, nel 1964, e riscoperto da Rai Teche e Rai Cultura che lo ripropongono lunedì 27 maggio alle 19,20 su Rai 5 per la serie Dorian. Venti anni dopo la morte avvenuta il 3 agosto del 2004 è possibile rivedere finalmente il ritratto di «un uomo in ombra che vuole restare in ombra per necessità e per gusto», come scrive Giorgio Bocca nel testo che accompagna le immagini.
Nel documentario il mistero di cui vuole circondarsi il fotografo che non vuol essere fotografato viene sottolineato e arricchito da un sapiente gioco di fughe e occultamenti, di riprese del viso in controluce, dietro una colonna, nascosto sotto le mani. Anche dell’appartamento in cui viene girato il documentario si sa soltanto che si trova a Parigi.
Nel dialogo con Martinez, Cartier-Bresson si definisce un memorialista, più che un reporter, e parla del ruolo della fotografia, anticipando i temi che sarebbero stati al centro del dibattito intorno all’uso e all’abuso della fotografia nei decenni successivi. Parla della responsabilità di chi si occupa di immagini, di rispetto per il soggetto fotografato, di falsificazione e di pubblicità in quella che, sessant’anni fa, considerava «un’epoca che violenta la natura e disintegra l’immagine».
Non sono la fotografia di documentario né quella pubblicitaria al centro della sua ricerca, spiega Cartier-Bresson. Rifiuta le «foto shock» che non hanno nulla a che vedere con «l’intensità che più ce ne è meglio è», rifiuta anche l’uso del teleobiettivo che «è un trucco» da cui tenersi alla larga come da ogni eccesso di tecnica che ha solo l’effetto di uccidere l’arte. A lui interessa la fotografia in cui «si evoca» perché «non è una fotografia in cui si prende, ma che prende noi, che ci afferra». I suoi riferimenti sono pittorici o legati a una fotografia impressionista. Considera maestri i fotografi Eugène Atget ed Erich Salomon, e poi anche Nadar e il regista Jean Renoir. «Devo molto a Renoir, non capisco molto di regia, ma la sua umanità mi ha influenzato enormemente», ammette. Per lui la fotografia non è che «un mezzo per disegnare», perché la fotografia «sta alla pittura come le impronte digitali a un ritratto». È qualcosa «tra la pelle e la camicia. È vero, è il contatto immediato, l’essere nella realtà, nella vita, quello che conta» dice citando l’amico Robert Capa, grande reporter di guerra che sosteneva che se non si è abbastanza vicini la foto non vale.
Mentre il fotografo che non vuole essere fotografato si racconta, scorrono le immagini in bianco e nero del laboratorio dove stampava le sue fotografie e dove, pur detestando i tecnicismi, si intratteneva con gli stampatori. E poi le foto del muro di Berlino, della morte di Gandhi, dei viaggi in Cina, la seconda guerra mondiale i ritratti di Alberto Giacometti. A un certo punto, all’improvviso, ecco Cartier-Bresson ripreso mentre si mescola alla folla, la macchina fotografica che pende su un lato del corpo, alla ricerca dell’immagine da rubare alle tante che gli scorrono davanti. La ripresa stavolta è in strada, in pieno giorno, non tra le ombre dell’appartamento e, in una sorta di disvelamento progressivo, viene mostrato in modo rapido il suo volto e soprattutto il suo stile unico: un intreccio di sguardi e di passi, un avanzare furtivo tra le persone, una danza lieve. Quando sente di aver trovato l’inquadratura perfetta, Cartier-Bresson solleva l’apparecchio, scatta e va oltre, a caccia dell’immagine successiva.
«Occorre fiuto, sensibilità intuitiva e fortuna sostenuta da cultura e alla fine la realtà» per cui «bisogna galoppare alla stessa velocità degli avvenimenti» racconta. Occorrono soprattutto «occhi, cuore e cervello» senza i quali la fotografia non lo interessa minimamente. Quando arriva all’immagine perfetta Cartier-Bresson prova «un piacere geometrico» paragonabile a quello di un torero che prende la mira per la stoccata perfetta». Se lo stile è furtivo e le foto sembrano prese di sorpresa, in realtà i ritratti che crea – spiega Cartier-Bresson – «non sono mai all’insaputa. Il ritratto è nella conversazione e osservazione». Quando il documentario è quasi alla fine, il fotografo che non voleva farsi fotografare decide la stoccata finale: si gira, mostra il suo volto e osserva soddisfatto l’obiettivo E a sentire pronunciare la parola carriera riferita al suo lavoro si affretta a precisare che la sua non è una carriera ma un mestiere. Anzi «un piacere». —