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 2024  maggio 24 Venerdì calendario

Intervista a Monica Guerritore

Il 24 maggio 1974 a Milano si respirava piena primavera. Al Piccolo Teatro debuttava Il giardino dei ciliegi di Giorgio Strehler. Quattro giorni dopo, il 28 maggio, a piazza della Loggia a Brescia, si sarebbe consumato un attentato terroristico di matrice neofascista durante una pacifica manifestazione. Erano gli anni di piombo. Quel 24 maggio una splendida fanciulla in fiore, Monica Guerritore, stava per andare in scena. La sua prima volta da attrice vissuta da incosciente. Se ne rese conto solo quando vide di straforo, in platea, la madre e il padre seduti vicini, ai suoi occhi per la prima volta. S’impiantò dietro le quinte. Ci volle il manrovescio di Strehler per catapultarla in scena. Cinquant’anni da Guerritore iniziati per caso, un viso che rimandava a Ingrid Bergman («Ero amica di Isabella e Robertino Rossellini, quando uscivamo insieme la gente diceva: “guarda i figli della Bergman”»), un provino che non fece, la perseveranza del grande maestro che la cercò ovunque, un’amicizia rotta con l’attrice scartata e una carriera fulgida.
Era piena primavera, ricorda?
«Sì. Montanelli, Piovene e Granzotto mi avevano eletta proprio in quei giorni mascotte del Giornale Nuovo. E questo perché mangiavo da sola in un tavolo vicino al loro, da Bice. Al debutto mi mandarono un bellissimo ramo di ciliegio in fiore».
Un debutto di razza il suo. Non era spaventata?
«Avevo studiato in Svizzera, ero abituata a vivere da sola. Fu questo grande regista a spiegarmi che storia e teatro possono essere complementari, che quando Cechov scriveva Il giardino dei ciliegi, affrontando temi epici come l’abbandono, la fine della giovinezza, la nostalgia, sentiva i primi colpi della rivoluzione. Una storia che diventa storia della società».
Per caso attrice. Ma la vocazione allora non esiste?
«Arriva, sera dopo sera, si tempra. Il talento è forgiato con ferro e fuoco, sacrificio e gelo, come diceva Eduardo. In cinquant’anni ho fatto quello che potevo. “Tu farai l’attrice e bene”, mi disse Strehler. Io ho voluto rispettare il credito che mi aveva dato accendendo una luce su di me, individuando il talento e facendomi sbocciare alla vita del mio dono. Mi teneva dietro di lui alle prove, quando non ero di scena e lì ho imparato».
Di lei regista si celebra il piglio innovativo. Uno per tutti, il suo omaggio a Strehler con Brecht: ci furono recensioni bellissime.
«Eppure è tanto difficile riuscire ad imporsi, nonostante questo».
Perché dice: una vita da combattente?
«Perché la tradizione italiana delle tournée ti porta in giro da ottobre a maggio e non ti permette altro. Perché gli attori di teatro non sono amati dal cinema. Ho ricevuto dei “no”. Per Romanzo popolare feci il provino poi presero Ornella Muti. Per Il prato, i fratelli Taviani preferirono Isabella Rossellini».
Invece la tv le regalò popolarità vero?
«Sì, nel 1975, in un periodo vuoto andai in Rai, a viale Mazzini: “Sono un’attrice del Piccolo di Milano, vorrei lavorare anche per la tv. Mi dice a chi devo rivolgermi?” Tanta sfacciataggine portò il commesso a suggerirmi uno dei due capistruttura addetti. “È napoletano, forse è più simpatico”. Lui mi aveva vista a teatro, al Piccolo e tempo dopo mi offrì di essere Manon Lescaut con la regia di Sandro Bolchi».
Un successo pazzesco, lei, giovanissima mezza nuda, moriva sulle note dei Pink Floyd da lei stessa suggeriti.
«Consideriamo che esisteva solo il primo canale. A marzo del 1976 era uscita la prima puntata e io ero in tour teatrale a Torino. Abitavo al Principe di Piemonte e per andare a teatro percorrevo tutta via Lagrange, attraversavo la piazza Carlo Alberto e poi giravo per il Carignano. Quel giorno la gente mi fermava per strada in delirio. Lo stesso accadde in teatro, rovinai l’uscita di Valentina Cortese. Ebbi un senso di mortificazione enorme. Non feci più televisione per anni».
Adesso invece la frequenta?
«Oggi ci sono le piattaforme. In Rai non c’è linea editoriale. C’è spazio solo per biografie semplificatissime. Senza spessore, si banalizza. Per attivare la capacità di commozione servono grandi storie, una rappresentazione poetica».
Come vede la Rai oggi?
«È allo sbando. La volontà di cambiare la cultura di questo paese ha sbalestrato tutti. La cultura monocratica è inaccettabile. Questo ha allontanato gli intellettuali e portato via trasmissioni storiche. Un pericolo enorme. Assieme alla delegittimazione della giustizia, alla legge sul premierato, un matriarcato mascherato, identico al patriarcato, agli attacchi alla legge sull’aborto, alla scuola e via elencando. Io lotto per la democrazia e per lo stato sociale che significa sanità pubblica, scuola pubblica, assistenza e lavoro. E credo nel diritto di autodefinirsi».
La sua vita sentimentale è stata altrettanto intensa?
«Molto intensa. I miei grandi amori si conoscono, Giancarlo Leone, Gabriele Lavia, il grande amore che arrivava dal grande dolore per la morte di Romolo Valli, un maestro e un amico indimenticabile».
Come andò con Lavia?
«Mi comportai come Ingrid Bergman con Rossellini. Gli scrissi dopo aver visto il suo Amleto dicendogli che mi mettevo a disposizione. Due figlie e anni meravigliosi fino a Scene di un matrimonio. Come per la coppia Liv Ullmann-Ingmar Bergman, ogni sera quelle parole raccontavano il dolore della nostra separazione. Oggi Roberto Zaccaria, un professore, niente di più lontano da me. Eppure è il grande amore, mi ha conquistata con pazienza, costanza, affidabilità».
Adesso a chi scriverebbe per lavorare?
«A Roberto Andò».
E la carica dei romani?
«Arrivata con Totti e Verdone, per il primo ho interpretato la madre, per il secondo, la moglie. Dopo il successo di Ginger e Fred ripreso da Fellini, oggi mi preparo al film su Anna Magnani e ne sono autrice, regista, sceneggiatrice con l’indimenticato Andrea Purgatori e interprete. Parto dal momento in cui lei aspetta di sapere se ha vinto l’Oscar, a letto, con a fianco il telefono, proprio come ne La voce umana che la riportava all’addio di Rossellini. Vincerà ma sarà troppo tardi, per lei e per il cinema».
A settembre torna su Netflix con una storia da “spalle forti”, come direbbe lei, vero?
«Quando ho letto la sceneggiatura di Inganno scritta da Teresa Ciabatti, mi sono convinta che il racconto andava portato. Parla di una donna matura, autonoma, ricca, con tre figli ma sola. Incontra l’amore in una condizione possibile, un giovane misterioso e bellissimo visto una notte. Può rappresentare il pericolo ma lei ne è attratta. È la storia scandalosa e sorprendente di una donna che vuole vivere la passione. Si può essere vincenti con questo gap generazionale? Questa donna è dominata o domina? È ingannata o inganna?».
Come festeggia suoi cinquant’anni da Guerritore?
«Mi metto all’asta come fece Vittorio Gassman, La sera della prima, errori e meraviglie di questi anni da artista».