Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 24 Venerdì calendario

L’immaginario di Cartier-Bresson

Nell’epoca degli smartphone, in cui ogni homus social iperconnesso si sente un mago del selfie, e ovviamente del fotoreportage h24, sarebbe interessante conoscere l’opinione di un genio vero dell’arte fotografica come Henri Cartier-Bresson (1908-2004). Sul degrado sociale e la conseguente crisi inarrestabile del genere umano, il “grande occhio” francese si era espresso già alla metà degli anni ’50, e la sua rarissima testimonianza televisiva ora è possibile vederla grazie a un documentario gioiello del 1964: Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini. Un omaggio di Rai Cultura, che lo ha ritrovato in quel forziere che sono le Teche e lo trasmetterà lunedì prossimo su Rai 5 (per la serie “Dorian”) a vent’anni dalla scomparsa di quello che Giorgio Bocca in incipit al docufilm, diretto dal regista e poeta Nelo Risi, definisce un «mago dei nostri tempi». Bocca, da punta di diamante dei reporter di allora, cura i testi dell’intervista che Cartier-Bresson rilasciò in esclusivissima al critico d’arte spagnolo Romeo Martinez, dal 1953 al ‘64 direttore della rivista svizzera Camera, sorta di feticcio per tutti gli appassionati di fotografia. E soprattutto per questi appassionati, sarà una scoperta (specie per i francesi appena informati del ritrovamento) vedere il volto di Cartier-Bresson che sempre in pieno stile “fantasmagorico” si mostra «tra timidezze e reticenze» – sottolinea Paolo Pacetti che dà voce al testo di Bocca – davanti a una telecamera, anche se di spalle. «Il pubblico mi scuserà se non lo guardo in faccia, ma il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l’anonimato. Quello del fotografo è un mestiere che si esercita a bruciapelo dove la gente si prende alla sprovvista e dove non è consentito mettersi in mostra». Così si presenta davanti al suo ammirato “inquisitore”, il baffuto Martinez, che pare quasi un Maurizio Costanzo alla scrivania, in vena di stuzzicare il «Maestro del caso poetico o della visione istantanea», cercando di tirare fuori quella che è la sua recondita vanità e un certo narcisismo attoriale che aveva in qualche maniera appreso nell’esperienza cinematografica con il regista Jean Renoir. Del cineasta «negazione della specializzazione», il Maestro della fotografia rivela: «Gli devo molto, manco del senso della regia ma il documentario mi interessa. Il mio è lo stesso lavoro con un’altra macchina. La sua umanità mi ha influenzato. È una delle confessioni che emergono nei preziosi 52 minuti di girato, fatto di dialoghi lentamente serrati, riflessioni profonde e filosofiche, inframezzate dalle immagini degli scatti che hanno fatto la storia della fotografia. Una fotografia che sa di poesia civile, come tutta l’arte di un uomo che avvertiva il peso della «responsabilità» del suo mestiere che definisce un «piacere». Una piacevole passione iniziata nel 1932, prima mostra a Madrid nel ‘33, la seconda in Messico, ricorda l’uomo che non ama i ricordi e che prova piacere nel girare il mondo, ma non nel viaggiare. «Mi piace molto fermarmi in un posto a lungo e capire che cosa succede: la mia parte sensibile se ne impregna, ci si dimentica di essere stranieri… No niente ricordi». Ricordi comunque mai cancellati, ma impressi su pellicola nella camera oscura che alla luce del sole si fanno “memorialistica”. Come quando scende in Italia ed eterna il Lago di Scanno. La Storia per lui è acqua corrente che scorre nei rivoli delle microstorie umane, sulle sponde della passione. E la passione non va mistificata, né sacrificata sull’ara del compromesso e del mercato: «Anche se quello è il mondo che ha vinto, ma io non lo rispetto. La vendita trionfa, è una pena, ma molti colleghi non hanno ceduto e li stimo per questo». Cartier- Bresson non si è mai bruciato avvicinandosi al falò delle vanità, così come non ha mai ceduto alla «falsificazione da parte degli sfruttatori di immagini, delle redazioni delle riviste» in cui da allora impera l’odiosa’ pubblicità: «Ma come si fa a credere che un sapone sia meglio di un altro?». Zavorre esistenziali e mercantili distanti dalla sua arte fotografica. Quella dell’ombroso e suscettibile artista normanno «è una fotografia che ha ucciso un certo tipo di pittura», sottolinea la voce fuori campo. Cartier-Bresson, sprezzante delle etichette della critica paludata quanto ufficiale, era consapevole della sua eredità di ultimo degli impressionisti. Il suo stile riconoscibile per composizione simbolica e elegante gli fa dire convinto: «Sono erede di quella tradizione pittorica». E come gli impressionisti che uscivano con tele e pennelli per cogliere la vita nel-la gioia e nell’immediatezza, lo stesso ha fatto Cartier-Bresson portando al collo la sua inseparabile Leica. Uno strumento, la macchina fotografica, che specie con il progresso tecnologico, secondo lui, «ha avvantaggiato la fotografia», al punto che sarcastico ammonisce: «Certi apparecchi istantanei possono essere usati anche da una scimmia» che compare in primo piano. E qui viene spontaneo al telespettatore, il rimando amaro all’attualità scabra connessa alla tecnologia, eppure mai così sconnessa, emotivamente e artisticamente, come quella della generazione dei nativi digitali. «Ma la scimmia non guardava nel mirino», gli fa notare l’attento Martinez. E allora Cartier-Bresson riponendo nella custodia il suo proverbiale cinismo insegna che per «fare fotografia occorre cultura, intuizione, sensibilità e un certo rispetto per l’apparecchio. Ci vuole occhio, cuore e cervello, fuori di questo la fotografia non mi interessa minimamente». La fotografia come mezzo emozionale, che disegna una geometria dell’anima. Lo fa tracciand o l i n e e e o m b re e i r ra d i a n d o q u e l l a l u c e c h e l u i cercava nei volti, negli scatti umani, ma soprattutto nella natura. Il suo linguaggio non è inedito, perché derivato appunto dalla cultura pittorica, ma si fa sicuramente unico e originale nel colpo d’occhio in cui va alla ricerca di una «armonia naturale» Al tempo stesso è stata «la fascinazione per Stendhal e per i pittori impressionisti» a condurlo alla fotografia, distinguendo però i piani artistici: «La fotografia sta alla pittura come le impronte digitali a un ritratto». C’è poi una via alternativa all’arte, che è quella della narrazione fotografica in cui riconosce la maestria assoluta di Robert Capa, «il migliore dei testimoni possibili dei (nostri) tempi difficili». L’amico ritrovato a Tolosa, nel 1946, dopo averlo conosciuto durante la guerra, in cui al trauma degli undici anni di studi collegiali, imposti da un interno di famiglia borghese, Cartier-Bresson aggiunse anche il fardello indelebile dei tre anni di prigionia passati nel campo di concentramento nazista. Da Capa aveva appreso la lezione che «se non si è abbastanza vicini al soggetto la fotografia non serve a niente». Il coraggio generoso e umanitario di Capa contro il freddo tecnicismo che è nemico di quell’artigianato di cui Cartier-Bresson si avvale passando ore con gli stampatori a compiere studi sulle pellicole. A lui interessano le emulsioni, la composizione perfetta come un dispositivo elettronico. Il laboratorio è un sacrario e il sacrilegio che si può compiere è il tentativo di immortalarlo mentre fotografa. «Qualcuno lo ha fatto», sottolinea Bocca, e lo ha colto in un istante di vanità estetica, nel suo balletto: l’esitazione indecisa prima del clic, un flash, un «passetto goloso, furtivo». Ma il fotografo vero non compie mai un furto. «Semmai è un furto fra complici Ma la persona fotografata lo sa e si lascia rubare. Il fotografo non violenta, non costringe e tutto avviene nell’attimo fuggitivo. Ed è l’inizio o il desiderio di un dialogo, come un bisogno (reciproco) di confessarsi». L’obiettivo? «Galoppare alla stessa velocità degli avvenimenti, senza lasciarsi buchi alle spalle, trattare il soggetto, non l’aneddoto. Testimoniare in maniera impressionista con rispetto e devozione per la natura in un tempo in cui è oltraggiata. Occorre lo scatto a “bruciapelo sia che si tratti di guerra o di altro. Bisogna essere implicati, essere nella vita», questo insegna Capa. Assieme al fotoreporter ungherese naturalizzato americano, ma anche con David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert, a New York nel 1947 fondarono la Cooperativa Magnum, la più prestigiosa agenzia fotografica al mondo, capace un anno dopo di inviare Capa a Tel Aviv per documentare la nascita dello Stato d’Israele e poi di sfidare ancora i venti di guerra nell’Indocina, lì dove cadde come gli eroi, sul campo di battaglia: ucciso da una mina il 25 maggio di sessant’anni fa nella provincia di Thai Binh. «Capa paga di persona pur di liberare la realtà dalla retorica, generoso muore per fotografare», ricorda Cartier-Bresson, professione“fotoreporter” che non documenta («non ne sono capace») ma evoca. La vocazione evocativa è la sua essenza, impastata di «fiuto, sensibilità spontanea e fortuna sostenuta da una profonda conoscenza. L’ultima parola spetta alla realtà». Quella realtà che inseguiva, soggiornando sempre almeno un anno nei luoghi dove poi la sua preoccupazione maggiore era «ripartire e lasciare la popolazione del posto con i suoi problemi e le sue miserie». La realtà è un’onda che oltreoceano lo trascina davanti al capitalismo incarnato dal finanziere americano di Wall Strett, in India per la morte di Ghandi, davanti al Muro di Berlino, in Messico, a Bali, e per due volte in Cina, testimone evocativo della caduta del regime di Chiang Kai-shek e poi dell’affermazione del comunismo che diventerà il libro memorabile pubblicato nel 1954: Da una Cina all’altra. Dal mito alla storia, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Il filosofo delle immagini Cartier-Bresson si smarca dal braccio di Martinez, intimandogli: «L’occhio non si tocca. Noi vorremmo divorare il mondo. Questa è un’angoscia. Bisogna stringere, mirare giusto e scattare presto. Ma poi bisogna correggersi nel rapporto con il soggetto, cambiare atteggiamento, stato d’animo. Spesso è buona la prima foto, anche se ne scatti 35. Questa angoscia è mancanza di selettività, ma noi non ci censuriamo, aspettiamo. Fotografo tutto per riscaldare i motori, poi si va sottopelle». Si volta Cartier-Bresson e la telecamera lo smaschera. Ma la voce della coscienza lo assicura: ora che conosciamo la sua faccia, non cambia niente, lei rimane il grande fotografo che sapevamo.