Corriere della Sera, 23 maggio 2024
Un libro su Bruxelles
Nella redazione Esteri della «Stampa», dove lavoravo in quel lontano 1993, il momento fu drammatico. Avevamo un direttore giustamente esigente, Ezio Mauro, un editore molto attento alla politica russa, Giovanni Agnelli, e ben tre corrispondenti da Mosca, su cui erano puntati gli occhi del mondo perché Boris Eltsin stava facendo cannoneggiare il Parlamento. Ma il giornalista che compariva sugli schermi tv, intervistato in un inglese fluente dalla Cnn, era il corrispondente del «Corriere della Sera». Un concorrente. Stava parlando come mediatore tra il Parlamento cannoneggiato e gli uomini di Eltsin. Ed era Paolo Valentino, che con il collega di «Repubblica» Enrico Franceschini era entrato tra le macerie della Duma ed era stato avvicinato dai deputati impauriti con l’incarico di portare un messaggio al presidente.
Paolo Valentino è così. Se lo metti in una stanza, dopo mezz’ora conosce tutti i presenti, dopo un’ora è in grado di scrivere le loro biografie. Un talento pazzesco per le persone, e un senso del tutto personale per l’approfondimento. Con questo metodo è riuscito a diventare l’unico giornalista vivente ad aver intervistato viso a viso – mai domande scritte, quasi mai interviste al telefono – sia Barack Obama sia Vladimir Putin. E ora si cimenta in un’impresa ancora più difficile: rendere affascinante l’Europa, e in particolare la sua capitale, Bruxelles. Nasce così il suo ultimo libro: Nelle vene di Bruxelles. Storie e segreti della capitale d’Europa (Solferino, da domani in libreria). Una guida alle prossime elezioni europee. Ma anche una pagina di storia comune che, ci piaccia o no, ha segnato le nostre vite. Perché il tempo che ci è dato in sorte sarà ricordato anche, se non soprattutto, per la costruzione europea.
Secondo Valentino, Bruxelles è un miracolo. Tutti ne parlano per demonizzarla o mitizzarla, ma pochi ne conoscono i meccanismi e le dinamiche. Soprattutto, pochi ne ascoltano il battito profondo. Il miracolo consiste nel fatto che a 15 chilometri da Waterloo e nel cuore di un Paese che fu campo di battaglia di due guerre mondiali, una miriade di donne e uomini dà vita ogni giorno a una rappresentazione pacifica in continuo aggiornamento, dovendo fare i conti con 27 politiche nazionali, un quadro globale sempre più instabile e un modo di funzionare lento per definizione. Il vero miracolo è che questo sistema, pur nella sua imperfezione e incompletezza, ci ha permesso di vivere in pace per 70 anni e ci ha fatto diventare la comunità più libera e benestante del pianeta.
Poi ci sono gli aneddoti del grande cronista. Jacques Delors racconta a Valentino come «ricattò» la Thatcher sull’Erasmus, minacciando di dire in conferenza stampa che lei si opponeva ai programmi di scambio fra gli studenti europei, costringendola così a togliere il veto. Melina Merkouri, ministra della Cultura greca, che balla il sirtaki in una taverna di Atene davanti ad Andreas Papandreou e alla fine si inginocchia davanti a lui baciandogli le mani. Gianni De Michelis, ministro delle Partecipazioni Statali, in un briefing dice che non accetterà mai di chiudere gli altoforni dei centri siderurgici di Taranto e Bagnoli anche a costo di cambiare il trattato Ceca e alla domanda di un giornalista se ha le palle per farlo, allarga le gambe, si porta le mani alla patta e dice: «Iron Resistant Balls». Mitterrand che prende Paolo per il braccio sul corso di Taormina (durante il vertice con De Mita) e lo tempesta di domande sulla città, la sua famiglia, la Sicilia; nel seguito, pochi passi più indietro, c’era una ragazzina tredicenne, Mazarine, la figlia naturale del presidente, allora clandestina.
E pensare che Bruxelles diventò sede delle istituzioni comunitarie per ordine alfabetico: nel 1957, dopo la firma dei Trattati di Roma, poiché i Sei non si mettevano d’accordo sulla capitale (candidate erano l’Aja, Strasburgo, Bruxelles, Milano o Torino, Lussemburgo già sede della Ceca) e si dovevano tenere le prime riunioni della Commissione e del Consiglio, si decise di rispettare l’ordine alfabetico previsto per la presidenza rotante (che toccava al Belgio prima di Francia e Germania); e così si riunirono a Bruxelles. Non si sarebbero mai più spostate.
Poi ci sono gli outsider. Come il deputato ungherese József Szájer, sorpreso dalla polizia nel dicembre 2020 mentre fuggiva dai tetti da un’orgia gay in pieno lockdown da pandemia. Szájer, fedelissimo di Orbán, si vantava di essere l’autore della Costituzione ungherese, che proibisce i matrimoni gay, e non perdeva occasione per attaccare e fustigare la comunità Lgbtq e l’Occidente depravato. Libertario a Bruxelles, bigotto a Budapest. Si dovette dimettere.
Sul fronte delle spie, Bruxelles ha superato Berlino e Vienna; solo a Washington ce ne sono di più. Russi, americani, cinesi, mediorientali, tutti a caccia di prede in una comunità transnazionale molto porosa, sede dell’Ue e della Nato e dove sono più di cento organizzazioni internazionali, 300 tra ambasciate e consolati, 26 mila diplomatici accreditati, 30 mila funzionari della Commissione e migliaia di lobbisti, giornalisti, ricercatori. Molto temuti gli agenti russi (almeno 200 tra finti diplomatici e illegali con falsa identità) e cinesi, che pescano a strascico: segreti militari, tecnologici, industriali, anticipazioni sui prossimi regolamenti europei.
L’Italia riesce a volte a farsi valere. In genere è più vicina alla Germania in politica estera e alla Francia sulla politica economica e industriale. Vale ancora una vecchia regola per i nostri rappresentanti: se non avete indicazioni da Roma, fate parlare l’olandese, e poi prendete la posizione diametralmente opposta. Alla Farnesina sin dagli anni Sessanta la chiamano la legge del Fracassi: «Nel dubbio, in culo ai Paesi Bassi». Durata media di una trattativa: 18-24 mesi, ma non è troppo se paragonato al passato. I francesi bloccarono per 14 anni la direttiva sul reciproco riconoscimento della professione di parrucchiere, perché «ci sono in ballo questioni di sicurezza e igiene e non se ne parla di aprire il mercato della Francia ai barbieri italiani».
Bruxelles nel suo piccolo ri-specchia l’Europa: tre regioni, diciannove comuni con polizie separate, due comunità etniche, bilinguismo asimmetrico (è una città fiamminga che al 90 per cento parla francese). E poi Molenbeek, l’Islam oltre il canale: centomila abitanti in gran parte di origine marocchina e turca, contesto totalmente islamizzato nella versione sunnita salafista. Da Molenbeek venivano gli attentatori del Bataclan nel 2015 e poi della stessa Bruxelles nel 2016. Mentre gli italiani, un tempo vittime sacrificali come a Marcinelle, si sono integrati al punto da esprimere un primo ministro del Belgio come Elio Di Rupo, figlio di immigrati.