il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2024
Tutti quelli che hanno detto lei non sa chi sono io
Qualcuno avverta il giovane Tancredi Antoniozzi, figlio di Alfredo, deputato meloniano: la politica ormai è un potere debole. Ha rinunciato a governare il mercato, è succube dei gruppi economici, ancella delle burocrazie, nemica della magistratura e amante promiscua dell’informazione. Le resta giusto la spocchia.
Il figlio di Antoniozzi è l’ultimo eroe di un genere letterario triste e un po’ patetico che attraversa gli anni, le legislature e i partiti: la saga del “tu non sai chi sono io”. Mitomania e familismo: non solo padri e madri, ma pure gli eredi millantano il potere.
L’educatissimo rampollo Tancredi ad aprile ha avuto un franco confronto con due carabinieri che l’hanno fermato per eccesso di velocità, mentre sfrecciava sopra un suv in centro a Roma. Lo racconta Repubblica: il ragazzo li avrebbe prima minacciati (“Vi faccio licenziare, non sapete chi sono io”) e poi aggrediti a calci e spintoni. Il giovane esagitato, accusato di resistenza e lesione, se l’è cavata con una condanna a otto mesi (ed è pure recidivo: nel 2022 era stato indagato per una rissa a Cortina d’Ampezzo). L’episodio ricorda in modo sinistro quello dei figli di Albino Ruberti, ex capo di gabinetto di Roberto Gualtieri a Roma e di Nicola Zingaretti in Regione: pure loro fermati dai carabinieri (ai Parioli) e multati perché sprovvisti di mascherina (era febbraio 2022, ultimi sgoccioli delle restrizioni per il Covid). I due fanciulli, all’epoca 17 e 19 anni, avevano protestato animatamente con gli agenti e quindi avevano esibito la formuletta d’ordinanza: “Non sapete chi è nostro padre”. È raro che il frutto cada lontano dall’albero: l’iracondo Albino – che si è dimesso dal ruolo di capo di gabinetto del Campidoglio dopo la pubblicazione di un incredibile video in cui urla e minaccia al telefono – si fece pizzicare dai vigili urbani durante una grigliata di pesce al Pigneto con gli amici: era maggio 2020, pieno lockdown. Prima di pagare la multa, si dice abbia sibilato anche lui la solita frase che poi avrebbero ripetuto gli eredi (“Non sapete chi sono io, di lavoro faccio applicare i Dpcm”).
Tra i politici italiani il senso della realtà fiorisce di rado. Non sono bastate le lezioni di Totò e Alberto Sordi e nemmeno una sentenza della Cassazione. Il 26 marzo 2012 i giudici hanno stabilito che l’espressione “Lei non sa chi sono io”, in certe condizioni, può persino costituire reato (“La sola attitudine della condotta ad intimorire è sufficiente per configurare il reato di minaccia”).
In cima all’elenco degli egomani onorevoli poteva forse mancare Vittorio Sgarbi? Tra le sue gesta indimenticabili, il litigio con un vigile di Pisa, il 28 maggio 1991. Il critico d’arte pretendeva di entrare in macchina in un tratto di strada chiuso. Il virgolettato è di un giornale d’epoca: “Lei non sa chi sono io! Non lo sa? Ma dove vive lei? Come si permette?”. La testimonianza del vigile è notevole: “Mi disse che se lo avessi multato mi avrebbe fatto piangere”. Pure la minaccia, una chicca: “Potrebbe anche morire qualcuno”.
Maurizio Gasparri è meno violento ma altrettanto incline all’ira. Lo scorso settembre, durante il congresso di Forza Italia a Paestum, ha risposto così a un cronista colpevole di una domanda sui conti del partito: “Telefono al tuo direttore e al tuo editore e gli dico come lavori”. Poi s’è allontanato per un conciliabolo al cellulare: “Il tuo inviato mi ha fatto una domanda del cazzo. L’ho mandato a fanculo”. Nella grande famiglia di Forza Italia si ricorda pure questo splendido episodio di Renato Schifani, oggi governatore della Sicilia: nel 2002 si presentò impettito al Cinema Aurora di Palermo e tentò di entrare gratis presentando una tessera scaduta dell’Agis. Quando la maschera gli rifiutò il passaggio, chiese alla sua scorta di prendere le generalità del lavoratore. Un signore.
Automobili e parcheggi sono uno stimolo micidiale per l’ego dei politici. Il 24 ottobre 2001 la parlamentare forzista Gabriella Carlucci fu protagonista di una serie di clamorose porcherie al volante della sua Porsche cabriolet: mentre parlava al telefono, ignorò lo stop e tamponò un autobus dell’Atac. Quindi si fermò per il verbale? Macché, ripartì a razzo, arrivò a Montecitorio e mollò l’auto sul marciapiede di Montecitorio (il parcheggio degli onorevoli era pieno). Pentita? “No, alla Camera c’erano le votazioni”. Quasi dieci anni dopo, il 12 maggio 2010 il deputato del Pdl Giuseppe Consolo denunciò in aula questo fenomeno “increscioso”: “Ogni giorno a noi parlamentari arrivano notifiche di violazioni del codice della strada. Noi qui veniamo a lavorare non a bighellonare!”.
Succede da sempre e non solo a destra. C’è cascato pure Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica. Da deputato socialista, anno domini 1972, parcheggiò sui posti riservati ai carabinieri vicino alla stazione di Milano. Un vigile gli chiese di spostare l’auto. Come rispose il padre del giornalismo progressista italiano? Ovvio: “Lei non sa chi sono io”.