il Giornale, 22 maggio 2024
Intervista a Gianni Oliva
Gianni Oliva sarà a èStoria (Gorizia) dopodomani, venerdì 24 maggio, a parlare del suo libro 45 milioni di antifascisti (Mondadori, pagg. 228, euro 21). In questo caso la data guida dell’incontro, quest’anno il festival di Storia più importante d’Italia è dedicato alle date, è quella del 25 luglio del 1943. Commentando la deposizione di Mussolini si dice che Churchill abbia detto: «In Italia c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti». Una frase impietosa ma che fotografa con esattezza il cambio di casacca di una nazione. Un cambio di casacca che ha avuto lunghi effetti sulla storia e sull’interpretazione della storia del Paese.
Professor Oliva, mi spieghi il senso del titolo del suo libro e cosa è successo il 25 luglio del 1943.
«Succede più o meno quello che riassume la frase attribuita a Churchill. Ma non l’ha scritto solo lui, pensiamo al Clandestino di Mario Tobino. Racconta il 26 luglio a Viareggio, dove le persone in strada iniziano a dirsi a vicenda: Io non sono mai stato fascista. Tempo qualche ora, tutta Viareggio si scopre antifascista. Ma questo è il livello più basso, il fatto più rilevante fu che in Italia cambiò il regime e cambiarono le regole ma dopo la caduta del fascismo i prefetti, i professori universitari e un gran numero di funzionari restarono al loro posto anche sotto la Repubblica. E questa continuità è un’anomalia, qualcosa di assolutamente diverso rispetto alla Germania con Norimberga».
Mi fa un esempio?
«Uno dei casi più clamorosi è stato quello di Gaetano Azzariti, che fu responsabile dell’Ufficio legislativo del ministero di Grazia e giustizia dal 1927 e poi fu anche a capo del Tribunale della razza e fu un antisemita convinto. Alla caduta del fascismo? Il 25 luglio 1943 fu nominato ministro di Grazia e giustizia nel primo Governo Badoglio. Dal giugno 1945 al luglio 1946 collaborò con il ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti. Poi fu membro delle due Commissioni per la riorganizzazione dello Stato e per la riforma dell’amministrazione. Quando qualcuno protestava con Togliatti, quello rispondeva: Io ho bisogno di qualcuno di capace. E ancora nel 1955 venne nominato giudice costituzionale dal Presidente della repubblica Giovanni Gronchi. Divenne Presidente della Consulta nel 1957».
Gli effetti della famosa amnistia Togliatti. Ma perché si fecero delle scelte così?
«Perché a decapitare una classe dirigente si rischiava quello che è successo in Irak: il crollo di un Paese. E comprensibilmente invece l’Italia era impegnata a minimizzare la sua alleanza con il nazismo. Dopo la guerra si è enfatizzato il 25 aprile, la liberazione con un colpo di spugna sul prima. Si è fatto finta di non aver perso la guerra mentre bastava guardare la cartina per capire che l’avevamo persa, come tragicamente hanno scoperto istriani e dalmati. Ma anche sulla loro situazione si preferì far finta di niente. Si finì per scaricare tutte le responsabilità sui ragazzi che scelsero Salò. Divennero i volontari di 17 anni i cattivi, non quelli che per anni avevano avuto ruoli di rilievo nel regime».
Ma perché anche gli alleati ebbero poco da dire su questa scelta?
«Gli inglesi ma soprattutto gli americani fecero due ragionamenti. Il primo fu che la cosa militarmente più importante fosse staccare l’Italia dalla Germania. Il secondo, e in questo l’amministrazione Usa fu molto lungimirante, fu che l’Italia non doveva implodere, come in anni più recenti abbiamo visto accadere ad Irak e Afghanistan, ma entrare stabilmente nel blocco occidentale. In un certo senso hanno mostrato più lungimiranza all’epoca di quanta ne hanno mostrata in anni più recenti».
Molti intellettuali erano convintamente fascisti, anche se poi finsero il contrario. Passarono direttamente al partito comunista. Il liberalismo non fa presa da noi?
«Gli intellettuali, si sa, spesso amano gli estremismi. Poi Togliatti favorì politicamente il cambio di casacca attraverso l’amnistia. Il grosso della burocrazia passò armi e bagagli nella Democrazia cristiana e non solo nel Pci. Quello che storicamente conta è che con questo meccanismo si finì per non fare i conti con molte cose. Da un lato c’è stata la demonizzazione del fascismo, ma soprattutto del fascismo di Salò, dall’altro una sorta di oblio sul fascismo precedente, che aveva trascinato il Paese in guerra. Nel campo di Coltano per dire finirono molti giovanissimi, che per altro avevano subito per anni la propaganda del regime, e non alcuni dei personaggi più legati al vecchio regime e che lo avevano aiutato ad imporsi. E di questa confusione abbiamo pagato a lungo il retaggio».