La Stampa, 22 maggio 2024
La vita sul ring di Matthew Franklin Ascesa e caduta di una leggenda
Matthew Franklin non si chiamava Matthew Franklin, si chiamava in un altro modo che ora non ricordo, ed era nato a Philadelphia in una famiglia poverissima, negli anni ’50.
Quando i suoi genitori si accorsero che a tre o quattro anni aveva ancora qualche problema a parlare, dettero ordine a uno dei suoi fratelli maggiori di portarlo su una tangenziale e di mettersi a correre così forte da staccarlo e lasciarlo lì, e lui per un po’ lo inseguì, il suo fratello, ma a un certo punto non ce la fece più e si fermò e si mise a sedere sul guard rail con le macchine che gli correvano accanto e la polizia lo trovò lì che piangeva e lo portò dalle suore che lo accolsero nell’orfanotrofio e lo ribattezzarono subito perché, appunto, parlava male e non gli riusciva di dire che si chiamava Maxwell Antonio Loach, ecco come si chiamava.
Gli venne dato nome Matthew in omaggio a Matteo l’apostolo, quello delle Beatitudini, e di cognome Franklin perché l’avevano trovato sulla tangenziale Franklin.
Dopo qualche anno nell’orfanotrofio viene adottato da una coppia che vive in un quartiere molto, molto difficile, e anche se lui è un ragazzone bello grosso c’è bisogno di farsi rispettare, allora comincia ad andare in una palestra di boxe dove si scopre che è un pugile nato, vince i primi incontri da dilettante e poi i primi tornei, ma siccome è poverissimo e non ha tempo di aspettare le Olimpiadi, passa subito professionista, a vent’anni, tra i mediomassimi, e vince quasi sempre anche se lo mettono sul ring con delle bestie terrificanti come Mate Parlov e Marvin Camel.
Una volta perde, da Eddie Gregory, ai punti, ma da quel giorno non perde più per anni e anni e diventa l’idolo di tutti noi appassionati di boxe di tutto il mondo, che lo adoriamo per il suo cuore immenso e la resistenza sovrumana perché non è uno di quelli che ballettano sul ring, Matthew. Non è un artista, è un combattente e non ha paura di nessuno, picchia come un cavernicolo e incassa le bordate più terribili, ma è anche un bel ragazzo timido che sorride sempre e nella vita si comporta bene ed è gentile con tutti.
Un gentiluomo nato, cavolo, con tutto quello che gli è capitato nella vita è venuto fuori un ragazzo eccezionale e infatti lo chiamano “Miracle Matthew”.
Un giorno diventa campione del mondo dei mediomassimi battendo per KO quella belva di Marvin Johnson in un massacro selvaggio che entra nella leggenda della boxe anche perché Johnson a forza di ganci gli aveva aperto dei tagli profondissimi sopra tutti e due gli occhi, e Matthew sanguinava come un toro nella corrida e gli ultimi round li aveva combattuti vedendo solo delle ombre, come disse alla fine, sul ring.
Poi succede che come tanti neri di quei tempi si converte all’Islam e cambia nome un’altra volta, diventa Matthew Saad Muhammad, e quando va in televisione a dire che vorrebbe tanto ritrovare i suoi veri genitori, una signora telefona in trasmissione e dice che il suo vicino di appartamento gli somiglia in modo impressionante, allora Matthew va a trovarlo e scopre che quell’ometto alto e magro è il suo fratello, quello che l’aveva abbandonato sulla tangenziale, ma di boxe non sa nulla ed è tutto rintronato e gli dice che gli dispiace molto di averlo lasciato sulla tangenziale, ci ha pensato tutta la vita, e se vuole sapere dei suoi genitori, ecco, non ci sono più, son morti di droga due anni dopo averlo abbandonato.
Matthew continua a combattere e a vincere contro i migliori campioni del suo tempo in incontri memorabili, diventa una superstar e guadagna milioni di dollari, ma un giorno lo mettono sul ring contro Dwight Muhammad Qawi, un altro nero convertitosi all’Islam, una specie di Tyson in miniatura che è arrivato alla boxe in galera dove si trovava per rapina a mano armata, e contro di lui c’è poco da fare, è la sua nemesi, come il bulldog per Zanna Bianca. Lo aggredisce senza tregua, gli ruba il tempo. Basso com’è si infila sotto il suo jab, lo martella ai fianchi e gli toglie la forza e l’aria e Matthew ci perde due volte, male, sempre per KO, e da quel momento cambia tutto perché ormai è stroncato nel corpo e nell’anima e avvia a perdere, e perde e perde e perde, lui che non perdeva mai. Combatte troppo, prende troppi cazzotti che non doveva prendere e alla fine si ritira l’ombra del guerriero che era, dopo quasi vent’anni di carriera, e la vita lo tradisce e lo pugnala. Arrivano i problemi, i falsi amici gli finiscono i soldi e lui comincia a drogarsi, in quattro e quattr’otto non ha più nulla e finisce a vivere per la strada finchè qualcuno non si ricorda di lui e viene accolto nel Boxing Hall of Fame, il tempio dei grandi campioni, e quando alla cerimonia gli chiedono di parlare, lui, il Matteo dei miracoli, s’ammanta della sua timidezza, tira fuori un gran sorriso, e di colpo lì in quella sala tutto splende. Dice che è felice, molto felice, che è pieno di felicità, nel suo cuore non c’è altro che la felicità d’aver vissuto per vedere quel momento.
Parla poco e a voce bassa e lentamente perché è molto emozionato e tutta la droga e i cazzotti che ha preso si fanno sentire e poi comunque parlare non era mai stato il suo forte, praticamente non fa altro che ringraziare tutti, poi si cheta e spara di nuovo il suo sorriso splendente e tutti quei vecchi pugili duri come le pietre si alzano in piedi ad applaudirlo con le lacrime agli occhi, l’uomo di ferro col sorriso di bambino che a quattro anni era stato abbandonato lungo una tangenziale.
C’è una gran foto di quella serata, di Matthew che è con Joe Frazier, Marvin Hagler e Ken Norton, tutti vestiti bene, e si abbracciano, e per un attimo è come se la vita – quella di tutti, anche la nostra – fosse un’avventura meravigliosa che si può solo esser contenti d’aver vissuto. —