La Stampa, 22 maggio 2024
Intervista a Paolo Rumiz
Alla seconda pagina del suo nuovo libro, Verranno di notte (Feltrinelli), un pamphlet vorticoso, teso e poetico sull’Europa e la notte che le incombe addosso, le guerre che la assediano, il disamore e l’intolleranza che la investono, Paolo Rumiz scrive che l’identità è una parola che «non serve più a dire dove sei e da dove vieni, ma a cercare la rissa e a sdoganare armi; identità, stessa radice di idiotes, che in greco vuol dire “quelli ripiegati su se stessi”, che hanno paura della complessità del mondo e non si lasciano fecondare dall’incontro con l’altro». Domenica, nel suo intervento a Viva24, la convention dell’estrema destra a Madrid, organizzata da Vox, Giorgia Meloni ha detto: «Possiamo costruire una Ue migliore e differente, può cambiare identità». Gli stessi che volevano abolire l’Europa, ora vogliono rifondarla. Non è chiaro in nome di cosa. Sono chiari i no, ma non si capisce, come ha scritto Orsina su questo giornale, cosa questa destra globale voglia in positivo. Scrive Rumiz: «La parola contro dilaga, il per è scomparso dal vocabolario».
L’Europa vibra di una guerra ancor sotterranea di tutti contro tutti, e Rumiz lo vede dal confine italo sloveno, dove si è trasferito da tempo, e dove da tempo, di notte, si sveglia agitato e si appunta gli incubi, le visioni, il resto del giorno prima che gli è rimasto addosso e le percezioni, soprattutto le percezioni – scrive di aver imparato a fidarsi molto di più di quelle che delle analisi. Le riporta tutte su questo libro, che è antologia, diario e poema. Dice come le cose sono e come potrebbero essere. E le dice in italiano e in inglese (il libro in inglese è disponibile in ebook su tutte le piattaforme). «Ci tengo: non ho scritto solo per gli italiani: ho scritto per gli europei».
Rumiz, cos’è un italiano?
«Uno che ha poca voglia di fare i conti con la propria Storia, perché gli fa sempre molto comodo credere alla favola degli italiani brava gente».
Non siamo brava gente?
«Non siamo diversi dagli altri».
Lei si sente italiano?
«Certo. Ma io sono un italiano sui generis, di frontiera. Sono nato e cresciuto a Trieste e il fatto che io viva non oltre ma incollato a questa frontiera, a nord est, tra Italia e Slovenia, è il segno del fatto che sono europeo prima di essere italiano».
Scrive che ce l’ha con le nazioni perché hanno “sfasciato” il suo impero, quello austro-ungarico. Ha nostalgie imperiali?
«Ma si figuri. Mai cederei a una stolta nostalgia. Ma meglio l’impero delle nazioni: trovo incredibile che siano rimpiante da tante persone, eppure l’esempio di quanto siano mortifere lo abbiamo avuto a due passi da noi, nei Balcani».
La nazione è un concetto sbagliato in sé?
«Le nazioni in quanto tali non vanno d’accordo: si costruiscono attraverso la differenza con gli altri, per esistere hanno bisogno di sottolineare ed acuire le differenze. Tornare alle nazioni ci farebbe scomparire dalla carta geografica. Se non capiremo presto quanto è importante e utile stare insieme, perderemo qualsiasi rilevanza».
Che significa in un momento come questo ambire alla rilevanza?
«Rendersi conto che siamo una potenza mondiale che rischia l’involuzione perché non ha fatto ancora il salto necessario per essere unita ed è ancora condizionata dagli interessi dei singoli Paesi. I politici che vanno a Bruxelles non difendono l’Europa, ma le rispettive nazioni».
Lei usa l’espressione “burocrati di Bruxelles”.
«Io la uso per intendere che i cittadini europei sono stati federati, finora, solo e soltanto da questioni economiche e finanziarie».
La usano anche i sovranisti e i populisti.
«Ma quei signori non si rendono conto che i burocrati a Bruxelles ce li hanno messi loro. I sovranisti mandano altri sovranisti al potere in Europa al solo scopo di criticarli per sembrare diversi, distaccati dal potere. È un grande imbroglio».
Come spiega il crescente desiderio di sovranità nazionale se non come rigetto della democrazia?
«Le destre credono che ci si possa compattare intorno a un nemico, e un nemico è facile da trovare anche dentro l’Europa, tra alleati, tra fratelli. Ho sentito di recente una pretendente al parlamento europeo francese lanciare anatemi contro il sapore delle fragole spagnole. Che senso ha? Ci si illude che divisi si starebbe meglio e, soprattutto, si dà agli altri la colpa dei propri fallimenti. Per troppi anni l’idea dell’Europa è stata un magnifico capro espiatorio per gli errori dei singoli governi europei, che potevano sempre dire: qui abbiamo sbagliato perché abbiamo dovuto adeguarci alla normativa comune. Lo hanno fatto tanto le destre quanto le sinistre. La balcanizzazione è questo: illudersi che da soli si fiorirà».
Il vuoto culturale che lei denuncia da molto tempo è una responsabilità della destra o della sinistra?
«Io sono duro con entrambe, ma arrabbiarmi con la destra non ha senso: fa il suo, fa ciò che crede. La sinistra, invece, le ha lasciato campo libero e in quel vuoto, come sempre è accaduto nella Storia, si insinuano i populisti, che portano avanti identità posticce e non hanno idea di cosa sia il profumo della patria, anche se della parola patria si riempiono la bocca».
Crede che sia dipeso dalla timidezza della sinistra nel parlare di etnia, patria, confini?
«Certo. Un pizzaiolo afgano una volta mi ha detto: “La mia patria è quella che mi dà da mangiare. E questa è la mia patria, e se viene qualcuno, qualche mio conterraneo, a ricordarmi i fantasmi dell’islam estremo io lo mando via a calci in culo”. Mi ha fatto pensare che, su queste basi, costruire una cittadinanza adottiva non può essere troppo difficile. Non dobbiamo sottovalutare lo spaesamento di chi si sente straniero a casa propria, perché è circondato da stranieri non assimilati o non assimilabili. Questo problema esiste e non è razzismo: è xenofobia, cioè paura di un eccesso di stranieri».
Sovranismo e populismo sono diversi?
«Il sovranismo è una truffa. Il populismo è un linguaggio e si appella agli istinti più basici delle persone, soprattutto di quelle impaurite dal cambiamento».
Anche lei dice però che è arrivato il momento di essere emotivi, di far parlare il cuore.
«Il cuore è una cosa e la pancia è un’altra. Gli anti populisti non hanno saputo contrastare il linguaggio della pancia con quello del cuore, hanno risposto con la lingua della mente, che è indispensabile ma senza il cuore non convince nessuno. Io ho convinzioni granitiche, razionali, ma le esprimo con il cuore. Quando a teatro racconto la storia dell’Europa, il suo mito, insieme a un’orchestra di giovani europei, le persone hanno gli occhi lucidi. E si alzano in piedi con una spontaneità stupefacente difronte all’evidenza della fortuna di essere europei».
Non la spaventa instillare fierezza?
«Non instillo fierezza: cerco di trasmettere la contentezza di essere europei».
E che differenza c’è?
«La stessa che c’è tra un inno nazionale che parla di unirsi in nome del sangue e della morte, come fa l’inno di Mameli, e l’inno europeo, l’Inno alla Gioia di Beethoven, ispirato agli ideali di pace, libertà e solidarietà tra i popoli. Non è orgoglio: è felicità di appartenere a qualcosa. Siamo una grande utopia nata dopo due guerre mondiali che hanno devastato il mondo. L’Europa è un cimitero diventato giardino. E la ragione per cui, dopo tutto questo, sta tornando la fascinazione per le stesse nazioni che a quelle guerre hanno portato, sta nel fatto che non abbiamo costruito un universo di simboli gioiosi, caldi, umani, e non li abbiamo usati per costruire una idea più alta di patriottismo».
Mi racconti quell’idea.
«Il mito di Europa. Che è un mito sano, femminile. Mentre da tutte le parti si cerca di riportare in auge il machismo, la guerra, la supremazia, la negazione dei diritti femminili, noi abbiamo la fortuna di poter ricordare che siamo i figli di una piccola profuga scappata da Oriente e rapita da un dio che l’ha portata a Occidente, convinto che fosse la terra più bella. La più verde».
E lo è la terra più bella e più verde?
«Provi ad arrivare in Europa, in volo, venendo da altri continenti: la prima cosa che si nota è il colore verde che domina, è quella la sua diversità. Se lo immagina se i politici dicessero queste cose? Se contribuissero a una narrazione ispirata di quello che siamo e abbiamo?».
Lei è particolarmente duro con Ursula von der Leyen.
«Sta tradendo molte delle sue promesse iniziali. Davanti al dilagare del sovranismo più becero, non ha saputo opporsi, e anzi lo ha cavalcato. Quando le ho detto che dobbiamo mettere più Europa nel nostro atlantismo, non ho chiesto di sconfessare l’atlantismo: le ho chiesto di considerare il Mediterraneo. La risposta è stata uno sguardo gelido, l’opposto di quello che ha riservato a Meloni»
Anche Biden sorride a Meloni.
«Lui ha drammaticamente bisogno di qualcuno che appoggi gli Stati Uniti, lei finge molto bene».
È sempre più diffuso il desiderio di dirigismo, di uomini forti al comando. Perché?
«La grande metafora di questa mutazione antropologica sono le navi da crociera, che per me sono la rappresentazione esatta di ciò che il potere economico vuole da noi: ti imbarchi e un capitano ti porta in posti conosciuti seguendo rotte conosciute. C’è un bisogno di gregge, di essere comandati. E pensare che fino a trent’anni fa, lo stesso europeo che oggi va in crociera, se ne andava in India in autostop».
È per questo che scrive: «Europeo, non conoscerai la tua terra in aereo. Ti servirà il treno, la corriera, la bicicletta per entrare nella verità dei Paesi»?
«Il viaggio lento è il più grande antidoto ai pregiudizi nazionali. Le parlo dalla Spagna e qui, per le strade, tra gli alberi di arancio e i gelsi, sento l’Europa più che in Italia. La Spagna è più spontaneamente europea: lo vedo nel traffico più disciplinato e nella dolcezza delle persone. Mi sento molto più a nord di quello che può dire l’altitudine».
Allora l’antidoto è la Spagna.
«L’antidoto è l’ascolto delle ragioni dell’altro. Anche quando l’altro è il nemico».
Insomma, la democrazia.
«La democrazia».
Che però ha stancato tutti.
«Tempo fa, Magris ha detto che se oggi arrivasse il fascismo, nessuno opporrebbe resistenza. Aveva ragione».
Che colpe ha la democrazia?
«Le ha la politica, non la democrazia».
Dicono che sono finite entrambe.
«Ce lo fanno credere. Ecco chi sono quelli che vengono di notte: quelli che inondano i social e il dibattito pubblico di queste frasi catastrofiche sulla fine di tutto, alimentando questa sindrome del tramonto che affligge l’occidente. È uno dei capolavori che hanno fatto le destre nazionali: convincerci che è finita mentre non è vero».
Krahn, candidato dell’Afd alle Europee ha detto: prima la sinistra era fica, ascoltava “I like Chopin”. Oggi i fichi siamo noi.
«Sì, può dirlo perché dall’altra parte nessuno, a parte qualche scrittore e qualche temerario (ma le assicuro: nessun politico) si alza in piedi per dimostrare che niente è più fico di Europa, di quella ragazzina arrivata dal mare sul dorso di un toro, delle terre verdi, della Nona di Beethoven