ItaliaOggi, 22 maggio 2024
Intervista a Carlo Verdelli
«La maggioranza è affetta da una voracità adolescenziale verso l’informazione in generale e la Rai in particolare. Ma la Rai è di tutti». E ancora: «Non dico che la sinistra sia esente da peccati, ma occupare sistematicamente gli spazi e pensare di pilotare l’informazione è un danno per i cittadini. La propaganda è sempre un danno». Carlo Verdelli, direttore di Oggi, in precedenza de La Gazzetta dello Sport e di la Repubblica oltre che dei settimanali Sette e Vanity Fair, è stato anche coordinatore dell’informazione Rai nell’era Renzi e fino al 2017 quando si dimette. Spiega: «La riforma a cui avevo lavorato fu bruciata. Non aveva senso che continuassi a stare lì». Perché bruciata? «Fu fatta uscire su l’Espresso prima che la potessi discutere con il cda. Rompeva le bolle, disturbava le tribù». Oggi «la Rai è rimasta alla sua organizzazione novecentesca delle strutture e delle redazioni. E continua a perdere fette di mercato, rischiando di buttare all’aria migliaia di posti di lavoro», dice Verdelli. Che ricorda del suo piano «la creazione di una Rai news sul digitale, fatta con il meglio del lavoro di tutte le redazioni, da affiancare a Rai play. I lettori, gli ascoltatori vanno catturati nelle piazze che frequentano. E la piazza è quella digitale. Chi non si attrezza è perduto». Della Rai di oggi «mi piace Affari tuoi, il programma dei pacchi condotto da Amadeus, ha un tessuto narrativo perfetto. Grave che un’azienda come la Rai abbia rinunciato ad Amadeus. Andrà a rafforzare la Nove».
Domanda. Direttore che rapporto ha con la Rai?
Risposta. Sono uno spettatore come tutti gli italiani, lasciando perdere l’informazione sa cosa mi piace?
D. Cosa?
R. Il programma dei pacchi condotto da Amadeus.
D. Affari tuoi?
R. Sì, è un esercizio di straordinaria abilità, affidato alla fortuna dei concorrenti e alla bravura di un conduttore come Amadeus che sa tenere alta la tensione intanto che emergono poco a poco le storie dei singoli partecipanti.
D. Un programma nazionalpopolare?
R. No, non lo definirei così. Non è un programma basso, ha un meccanismo narrativo perfetto, creato partendo dal nulla. Peccato che la Rai abbia rinunciato ad Amadeus, trovo che sia gravissimo e pericoloso per un’azienda che a fine 2023 aveva un indebitamento netto pari a 568 milioni di euro. Amadeus andrà a rafforzare la Nove, come ha già fatto Fabio Fazio. Due numeri uno, che fanno audience e dunque pubblicità.
D. La Rai come un’azienda?
R. La Rai è un’azienda, che ha tre mission fondamentali, deve fare informazione, cultura e intrattenimento. Più è debole, più è in mano ai partiti. L’indipendenza economica è garanzia di libertà.
D. Due frasi che ricorrono periodicamente quando si parla di Rai sono «fuori i partiti dalla Rai» e «basta lottizzazione».
R. La Rai ha vissuto una lunga stagione nella quale la Dc, che era il partito di maggioranza, garantiva un servizio pubblico considerevole dal punto di vista dello spettacolo, della cultura e dell’informazione. La lottizzazione arriva con il pentapartito, con la Dc che si tiene la prima rete, Craxi con il Psi la seconda rete e Rai 3 che va alla sinistra. Questa spartizione viene spazzata via quando arriva sulla scena Silvio Berlusconi.
D. Come cambiano le cose?
R. Oltre che un personaggio finanziariamente rilevante, uno che fonda un partito e in sei mesi vince le elezioni e che ha già tre reti commerciali, con Berlusconi la nuova maggioranza entra in Rai e resta come enclave della sinistra Rai 3. Molti uomini Fininvest approdano a viale Mazzini, insomma la concorrenza vera viene meno. Con Matteo Renzi presidente del consiglio viene chiamato come amministratore delegato Antonio Campo Dall’Orto che ha l’incarico di mettere a posto i conti e rendere l’azienda più moderna. Arrivo anche io come responsabile dell’informazione. Per molti mesi lavoriamo sui prodotti e sull’ammodernamento, la proliferazione delle reti, lo sbarco sul digitale. Nasce Rai Play.
D. Condizionamenti?
R. Come capo dell’informazione godevo di libertà assoluta, come credo tutti gli altri.
D. E dopo?
R. Con l’avvicinarsi del referendum costituzionale l’atteggiamento di Renzi cambia, prevale il «se gli altri hanno usato la Rai perché io no»...
D. Renzi perse il referendum. E pure il Pd.
R. Ma si torna a una Rai molto attenta a servire chi di volta in volta gestisce il potere.
D. Lei presentò anche una riforma.
R. Non la presentai. Fu fatta uscire su l’Espresso prima che la potessi discutere con il cda. Rompeva le bolle, disturbava le tribù. Così la bruciarono. A quel punto decisi di dimettermi, non aveva senso rimanere lì. Oggi la società è rimasta alla sua organizzazione novecentesca delle strutture e delle redazioni. E continua a perdere fette di mercato, rischiando di buttare all’aria migliaia di posti di lavoro.
D. Cosa prevedeva il suo piano?
R. Per esempio la creazione di una Rai news sul digitale, fatta con il meglio del lavoro di tutte le redazioni, da affiancare a Rai play. I lettori, i cittadini vanno catturati nelle piazze che frequentano. E la piazza è quella digitale. Chi non si attrezza è perduto.
D. In questi mesi la Rai è di nuovo sotto i riflettori, il pluralismo è garantito?
R. In questo momento assistiamo a una maggioranza vorace verso l’informazione in generale e la Rai in particolare. Direi che sono affetti da una voracità adolescenziale. Non faccio riferimento alle classifiche sulla libertà di stampa ma all’allontanamento di persone che non sono allineate al nuovo corso. La Rai non è di chi di volta in volta vince le elezioni, ma è dei cittadini, è mia, è tua, è di tutti coloro che pagano il canone. Ed è a tutti che bisogna parlare. È a tutti che deve essere garantita un’informazione corretta, a chi ha votato per chi ha vinto, a chi ha votato per chi ha perso, a chi non è andato a votare.
D. Non pesa anche una voglia di rivincita dopo anni di emarginazione della destra sui media?
R. Occupare sistematicamente gli spazi e pensare di pilotare l’informazione è un danno per i cittadini. La propaganda è sempre un danno, rappresentare la realtà in modo da fare bella figura e poi così pensare di vincere ancora significa inquinare il confronto. Veniamo dalla pandemia e tutti pensavano che vi sarebbe stato un rinascimento. E invece stiamo scontando due guerre, tra l’altro a noi prossime, abbiamo un debito pubblico spaventoso. La vita che hanno vissuto quelli della mia generazione è finita. Il lavoro è povero, precario, anche nelle redazioni. E quanto non sei sicuro sei anche più condizionatile. Mi ha colpito una riunione di giornalisti Rai, in vista dello sciopero indetto dall’Usigrai, finita sulla rete in cui una giornalista di Rai news diceva -e non è stata smentita- che avevano dovuto battagliare con i colleghi per poter inserire in qualche spazio il fatto che il ministro Lollobrigida aveva fermato un treno per scendere. Il ministro avrà fatto bene o male, ma era una notizia. E andava data. Che si faccia fatica a darla è un problema.
D. È in difetto solo il giornalismo di destra?
R. Non dico che la sinistra sia esente da peccati, ma l’informazione deve essere un contropotere del potere. E io sono preoccupato per una Rai così orientata nel sostegno al governo e che al contempo non vedo impegnata a rimettersi in sesto come azienda. Senza dimenticare che Angelucci, parlamentare Lega, già proprietario di tre giornali di destra, sta per comprare la seconda agenzia di stampa italiana, l’Agi.
D. Come riconoscere l’informazione di qualità?
R. L’informazione è l’ossigeno per la democrazia, è un servizio sociale primario. Oggi con cellulare siamo sommersi di notizie, retroscena, fake news, viviamo in una overdose di informazione e disinformazione. Quello che serve è il bollino blu dell’affidabilità, e questo lo si conquista facendo al meglio il proprio lavoro di giornalista, dimostrando che quello che si propone al lettore, all’ascoltatore, al telespettatore è al loro servizio. Non al servizio di altri. Questo dà la credibilità. In una crisi che non è più solo economica, ma sociale, contrassegnata dal passaggio dall’epoca postindustriale all’epoca digitale, è tutto cambiato. Anche come le persone usano il loro tempo, le priorità che si danno. Noi stiamo qui a discutere se un tg è più vicino a Meloni o Salvini. Intanto che stiamo sul Titanic del cambiamento.