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 2024  maggio 22 Mercoledì calendario

Alla ricerca delle lingue quasi perdute

«Nel nostro Paese, ci sono diverse lingue con una storia antica e un presente vivo»: si presenta così, con queste parole, “Voci nascoste”, la mostra che, in occasione della prima edizione del festival fotografico Exposed, occupa un’intera sala di Camera, il centro espositivo torinese.
Curata da Giangavino Pazzola, la collettiva analizza tre lingue antiche, ovvero ilpatois,ilgriko e l’ arbëreshë, mettendo insieme, per la prima volta, tre fotografi diversi le cui opere analizzano il territorio, il senso della radice e, se volessimo scomodare a tutti i costi una materia complessa come l’antropologia, il senso dei luoghi. Non sarebbe d’altronde un azzardo visto che, in tutti i lavori esposti, lo studio dei comportamenti della lingua all’interno della società contemporanea, rappresenta il fulcro principale.
Le voci nascoste sono, o almeno così sembra, un’allegoria visiva nell’opera di Roselena Ramistella, siciliana, che in Brezi, il suo progetto sull’ arbëreshë (l’antica comunità che viene dall’Albania), ha documentato Piana degli Albanesi, un paese poco distante da Palermo, durante la Settimana Santa dell’Eparchia. Alcuni uomini e donne, nelle immagini di Ramistella, sembrano nascondersi, come a volersi proteggere e a voler dunque proteggere un’identità.
«In realtà, se si osservano le immagini con più attenzione, si nota che queste persone sono più che altro aggrappate a delle cose: chi a un velo, chi a una tenda, chi a una sedia e chi a una bandiera. O, ancora, albrezi» spiega la fotografa che, proprio da questo prezioso ornamento che si tramanda di generazione in generazione e che, nella sua etimologia, vuole dire discendenza, ha preso in prestito il nome per il progetto. «Si tratta di una cintura antichissima che fa parte dell’abito delle donne arbëreshë e quindi, dal mio punto di vista, si tratta di un aggrapparsi a un qualcosa che sta scomparendo, perché la linguaarbëreshë è stata tramandataoralmente, quindi è un po’ come un telefono senza fili – spiega Ramistella – che, alla fine, dopo vari passaggi, arriva un po’ più debole. I giovani, infatti, lo parlano mescolato con l’italiano, mentre gli anziani parlano un arbëreshë puro, dotto e antico». È fondamentale, anche, l’uso che la fotografa fa del paesaggio e dell’iconografia classica, con rimandi vari, nei toni e nelle pose, a San Sebastiano e Antonello da Messina.
«La prima volta che sono stata a Piana degli Albanesi il paese sembrava vuoto, spopolato, così mi sono seduta al bar e ho iniziato a cercare i soggetti da fotografare – conclude la fotografa – Dalì è iniziato tutto. Nel corso di alcune settimane li ho ritratti in comunione con il luogo e con gli oggetti di famiglia che li rappresentano».
Diverso, forse non nelle intenzioni ma sicuramente nel modo di mostrare il progetto, è il lavoro di Arianna Arcara realizzato in Valle d’Aosta, che si concentra sulpatois franco-provenzale. Si intitola Té, tèins, ten, tén, tens e si sviluppa in un vero e proprio schedario che l’artista, membro del collettivo Cesura, ha deciso di inserire all’interno di una bacheca. Le immagini – e qui sta la genialità – non sono state stabilizzate in fase di stampa, perciò muteranno cromaticamente col trascorrere delle settimane.
Riuscire a tradurre in foto una lingua, ha spiegato Arcara, è stato molto complesso: a differenza degli altri due artisti, essendo lei lombarda, in Valle d’Aosta era come una sorta di fuori sede. «Ho cercato di comprenderla, questa lingua, studiandone le poesie, per esempio, nella biblioteca valdostana. Ero affascinata dal fatto che le lingue sono legate al tempo. Ilpatois,poi, ha svariate variazioni: la parola castello, giusto per dirne una, ha quasi trentasette declinazioni. È una lingua che è cominciata parlata, poi Jean-Baptiste Cerlogne, che eraun abate, l’ha riportata in scrittura e da quel momento in poi si è andati avanti fino ai nostri giorni».
Arcara, dunque, ha deciso di lavorare al suo progetto soffermandosi sul tempo e sulle tempistiche della lingua. Ecco, quindi, l’idea della bacheca: una sorta di work in progress costante che, semplicemente, dalla camera oscura dell’artista si è trasferita a Torino, con le varie sperimentazioni chimiche sulle fotografie che hanno l’intento di portare il concetto di variabilità dentro all’immagine. «Trovo sbagliato parlare di sparizione di una lingua poiché può certamente sparire ilparlato, ma i dialetti scritti sono sempre documentati. Alcune mie fotografie presenti nella mostra rimarranno fisse, altre variano, cioè oggi sono grigie, ieri rosa e blu, alcune viola, ma tra due settimane diventeranno seppia, e altre, infine, andranno verso la sparizione. Ma ne rimarrà, per sempre, una traccia» conclude Arcara.
Ciò che colpisce del lavoro di Antonio Ottomanelli, dedicato algriko e sviluppato nelle zone delle comunità greco-salentine, è invece l’assenza della spettacolarizzazione del Sud, tipica di molta fotografia meridionale degli ultimi anni.
Nel podcast realizzato da Chora, l’artista ha spiegato di aver attraversato i luoghi della Grecia Salentina alla ricerca della comunità che parla ogni giorno ilgriko,cercando di documentare le tracce tangibili e intangibili delle credenze, dell’arte e dei riti. Il senso del progetto, dice l’artista, è stato trovato nel confine, visto che i luoghi simbolo di questa lingua vivono ai due lati di una soglia che divide un prima che non può più essere, e un futuro che non conosciamo.
Quello di Antonio Ottomanelli è dunque un approccio documentaristico e umano, attento all’essenza e, a tal proposito, è emozionante la presenza di documenti che il fotografo ha ritrovato nel Salento e che ha deciso di portare a Torino, in una sorta di mostra nella mostra. Su un testo, scritto a mano, si legge: «Per imparare il greco moderno senza maestro, e il greco di Sternatía. Versione ed equiparazione di De Santis Cesare (bracciante agricolo) con la quinta elementare». Prova che, come sostiene Arcara, nulla scompare finché esiste documentazione.