Corriere della Sera, 21 maggio 2024
Ricominciare da De Gasperi
È una domanda che trova risposte sempre molto faticose. C’è stato uno statista nell’Italia del dopoguerra, un leader che ha cambiato davvero le cose? Con una visione e la capacità di realizzarla, con una missione coinvolgente per tutti gli italiani? Alla fine il nome è soltanto uno: Alcide De Gasperi, il democristiano nato in Trentino, provincia austriaca fino al 1918. Le corde dell’identità nazionale non hanno mai vibrato per lui, come per de Gaulle in Francia e Adenauer in Germania. Il silenzio, le dimenticanze e le ostilità, anche nel suo mondo (quello cattolico), sono state continue e incomprensibili. Il costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici di oggi, il saggio di Antonio Polito da oggi in libreria per Mondadori, ci racconta invece perché è stato un vero statista e perché la sua eredità non è mai diventata la stella polare della politica italiana. Una straordinaria occasione perduta all’inseguimento di quella Repubblica dei partiti che ha dato il peggio di sé negli ultimi decenni.
Ci sono due frasi di De Gasperi in cui tutto si raccoglie. Una è stracitata: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni». L’altra risale alla fase finale dell’esperienza politica dell’allora presidente del Consiglio sul pericolo della «unione delle forze per la demolizione che rende impossibile l’unione per la ricostruzione». Questa è la prima discriminante, sintetizzata nel titolo del libro: i politici di oggi vogliono tutti rottamare, andare all’assalto, usare gli attrezzi più diversi (la ruspa, il lanciafiamme, il tosaerba) per presentarsi come «nuovi», come demolitori del passato in nome di una palingenesi che non arriverà mai oppure produrrà disastri. Politici che passano le giornate a capire come si muove «la pancia della gente», che sfornano illusioni invece che costruire soluzioni. Meteore protagoniste di ascese vertiginose e di altrettanto rapide cadute quando tutti capiscono che hanno venduto false speranze e gettato fumo negli occhi.
De Gasperi si prende sulle spalle le conseguenze di una guerra voluta dal fascismo. Tratta sulle frontiere, difende i nostri connazionali, strappa accordi ed entra in alleanze che segneranno positivamente il nostro futuro. È l’opposto del politico che vuole piacere, che vive solo di consenso. È sobrio nella vita personale, attento a ogni spesa e refrattario a qualsiasi esibizionismo. Correttezza, onestà, spirito di servizio sono i suoi tratti privati e pubblici. Così affascinò gli italiani che gli resero un incredibile omaggio nel giorno della sua morte.
Fu alla fine un uomo solo. Soffrì per l’ostracismo di papa Pio XII, ma non rinunciò a distinguere i suoi doveri istituzionali dall’obbedienza a un Pontefice che voleva imporgli un’alleanza con missini e monarchici nelle elezioni comunali di Roma del 1952. Le istituzioni venivano prima delle appartenenze partitiche e di fede.
Un moderato e al tempo stesso un riformatore vero. Non sbandierava riformismi illusori, ma realizzava pazientemente le scelte che avrebbero determinato la rinascita sociale e civile del dopoguerra. Tutto quello che arriverà dopo, dal boom economico all’ingresso nel club delle grandi potenze industriali, ha le basi nei suoi sette anni di governo.
C’è una straordinaria attualità nelle lezioni ricordate nel libro. La prima ci immerge in un conflitto ancora acceso in questi giorni. Cosa significa essere davvero «democratici»? Una domanda che ritorna, se ancora ci interroghiamo sull’antifascismo e sui rischi presunti di una deriva autoritaria. Antifascista De Gasperi lo fu senza alcun dubbio, l’unico dirigente dei popolari finito nelle carceri del regime. Ma al tempo stesso fu l’uomo che decise di cacciare i comunisti di Togliatti dal governo. La nuova Italia, per De Gasperi, doveva essere antifascista ma anche anticomunista. Perché i valori, l’idea di Stato, la concezione dei diritti del Pci potevano sfociare nella dittatura. Rompere l’unità di governo delle forze che avevano combattuto nella Resistenza fu un gesto forte, non dettato però dalle imposizioni e dai finanziamenti della superpotenza americana. Fu una scelta consapevole: la democrazia è antidittatura. Il tempo gli avrebbe dato ragione completamente.
Il progetto è chiaro: collocare l’Italia nel campo delle democrazie occidentali, assicurare un’alleanza strategica con gli Stati Uniti, aderire al Patto atlantico di difesa, iniziare la faticosa ma visionaria costruzione di un’Europa unita. Un’unione che doveva comprendere la politica estera e la difesa. Non fu così e ancora oggi, mentre la guerra è tornata in Europa, siamo qui a discuterne e a rimpiangere di non averlo ascoltato. E di non aver capito quanto le scelte chiare nella politica estera e le alleanze globali determinino la nostra vita interna. Solo così si difende la «nazione» Italia, non con i piccoli nazionalismi.
Alcide De Gasperi, ci dice Polito, fu «moderato ma non esangue». Al contrario un vero riformista. Anche quando veniva accusato di ortodossia nel contenimento della spesa pubblica. Combattere l’inflazione, controllare il bilancio statale fu condizione essenziale per mettere in campo un modello originale di intervento pubblico: Iri, Cassa per il Mezzogiorno, piano casa, riforma agraria, Eni. Il più vasto piano della storia del Paese. Il «miracolo economico» (tra il 1959 e il 1962 crescite del Pil tra il 5,9% e il 6,8%) ne fu il risultato. C’è un’altra intuizione fondamentale: l’Italia intera non si sarebbe mai sollevata se il Mezzogiorno fosse rimasto in una condizione di arretratezza economica e sociale così paurosa. Per tanti anni funzionò; gli anni in cui la Cassa, prima di finire nella morsa degli appetiti dei partiti, fu lo strumento essenziale per assicurare prima condizioni decenti di vita (come l’acqua potabile), poi per creare le infrastrutture necessarie all’industrializzazione.
Non si è mai più visto un periodo in cui idee, progetti, realizzazioni e senso di responsabilità sono stati così chiari. De Gasperi fu un premier forte, ricetta tanto caldeggiata oggi, perché forti erano le istituzioni non ancora messe all’angolo dalla Repubblica dei partiti. Visse i suoi ultimi anni di governo con il cruccio della battaglia tra le correnti interne della Dc. Cercò di rafforzare l’esecutivo e tenerlo al riparo. Consapevole di quanto il vento del dopoguerra sia cambiato, gioca la carta che ne determinerà l’addio: quella nuova legge elettorale ribattezzata «legge truffa», ma che truffa non era minimamente. Prevedeva un premio di maggioranza per i partiti apparentati solo se superavano il 50 per cento dei voti. Se pensate ai premi previsti dalle leggi elettorali successive…
Il tema delle riforme è ancora, immutabile, tra di noi. E De Gasperi può darci l’ultimo consiglio: un premier è forte se le istituzioni sono forti, non sopraffatte dal peso dei partiti.