il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2024
Trump, cimiteri e rottami
Come siamo arrivati al Donald Trump che conosciamo? Con tre regole, mutuate dal suo mentore Roy Cohn: prima regola, attaccare, attaccare, attaccare; seconda regola, negare tutto, non ammettere niente; terza regola, non dichiarare mai la sconfitta. Un vademecum, scherzerà il suo biografo, che spiega altresì “gli ultimi 25 anni di politica estera americana”, ma facciamo un passo indietro: Cohn è lo stregone, Trump l’apprendista e The Apprentice di Ali Abbasi potrebbe conquistare un premio importante a Cannes 77.
Titolo che evoca il reality show The Apprentice, di cui Trump ha tenuto le redini dal 2004 al 2015, sceneggiatura firmata dall’esperto Gabriel Sherman, il biopic che è anche un romanzo di formazione, approfondisce la giovinezza di The Donald e il fondamentale sostegno ricevuto tra il 1970 e il 1980 da Roy Cohn, influente avvocato di destra e faccendiere politico già al fianco del senatore McCarthy.
Arriverà nelle nostre sale con Bim a ridosso delle elezioni americane (negli States non ha ancora una distribuzione…) e proseguirà la corsa nell’award season, Oscar in primis: da Nascita di una nazione, a responsabilità limitatissima, a Quarto potere, immobiliare e ammobiliato, Abbasi mette a sistema nella resistibile ascesa di Trump tanto cinema, e tanto declino dell’impero americano – fino ad adombrare una involontaria agiografia. Quando, complice Cohn, The Donald cita in giudizio il governo per avere il via libera alla costruzione, là dove c’era il vecchio Commodore Hotel, della Trump Tower, la madre legge orgogliosa il New York Post, che lo celebra “alto, biondo e assomigliante a Robert Redford”. È tutto, e solo, spettacolo, e l’ignoranza ammessa, persino promossa: Trump alla festa di Cohn s’imbatte in Andy Warhol, non sa chi sia, ma condivide assai che “fare i soldi è un’arte”. Certificherà la sua biografia – a quattro mani con Tony Schawrtz, 1987 – intitolata L’arte di fare affari, e se l’America è osannata – prima dell’inevitabile orgia con declinazione omosex in casa Cohn – quale “mio primo cliente”, che ne è della politica?
Nixon è un crook, un furfante, la spilletta reaganiana recita “Let’s make America great again!”, la Casa Bianca per Trump è una mera evenienza da loser: “Se perdo correrò da presidente”. Ma già lo ingolosiscono, ehm, i benefit, e segnatamente il miraggio di “un pompino sull’Air Force One”: maschio alfa, killer instinct e altre amenità, e quando la moglie Ivanka per via libraria lo invita alla scoperta del “Punto G” ecco lo stupro.
Non stupisca, è Faust a siglare l’accordo tra Cohn e Trump, e tuffando lo spettatore nel ventre molle degli States, Abbasi, iraniano naturalizzato danese classe 1981 e reduce dal discreto Holy Spider (2021), contempla la liposuzione cui si sottopone The Donald, ossessionato dalla linea – che cerca di non perdere con le anfetamine – e dall’incipiente calvizie: gli dà volto e ciuffo Sebastian Stan, che al pari di Jeremy Strong (Cohn) regala una prova tanto mimetica quanto espressionista. Non c’è condanna morale né dissuasione ideologica, The Apprentice cerca la fenomenologia dello spirito fatto mercimonio, i prodromi di quel che sarà The Donald e nazione tutta, inquadrando un artista degli affari, e forse un escapista dalla legalità, che rassomiglia il Don Johnson di Miami Vice e negli anni Ottanta non ancora della post-verità già si chiede “what is the truth?”, e non per speculazione filosofica.
Oggi passa l’atteso Parthenope di Paolo Sorrentino, che sarà sugli schermi italiani in autunno con la neonata distribuzione PiperFilm, per ora il Concorso serve lo strano caso di David Cronenberg, che filmografia alla mano è sicuramente più riconoscibile a apprezzabile in The Substance della francese Coralie Fargeat che non nel suo The Shrouds, sui cui assecondando la storia sarebbe meglio stendere un sudario.
Superati gli ottanta, il maestro canadese ne ha 81, non si dovrebbero fare film sui cimiteri, per quanto avveniristici, ancor più non si dovrebbe imporre al protagonista (Vincent Cassel) una pettinatura da sosia del regista, perché l’effetto “Come eravamo” è dietro l’angolo: il thriller, si fa per dire, mette insieme voyeurismo post mortem (la bella trovata è poter assistere in tempo reale alla decomposizione del caro estinto) e teorie cospirative, espansionismo cinese e hacker russi, copule con lei e la sorella (Diane Kruger una e bina) tanto per stare in famiglia, intelligenza artificiale e intelligenza artificiosa in scrittura, e una spolveratina di body-horror.
Ben altra cosa è The Substance, dove la star rottamata Demi Moore si dimezza in un più giovane e bello alter ego (Margaret Qualley) con le derive mostruose del caso, la critica alla società dello spettacolo e al sessismo predatorio dello showbiz (il produttore si chiama Harvey come Weinstein). Nel cimitero degli elefanti (Coppola, Cronenberg) e nel limbo dei tanti ignavi, la sostanza giusta per rivitalizzare il Concorso.