il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2024
Si deve capitolare per convivere
Tra Anacharsis Cloots e il padre gesuita Antonio Messineo non sembra esserci molto in comune.
Il primo, barone ultra-giacobino nato a Trier il 24 giugno 1755 e ghigliottinato a Parigi il 24 marzo 1794, fu assertore e propugnatore di una “Repubblica universale” e si proclamò presso la Convenzione Nazionale (di cui fu membro) “ambasciatore del genere umano”; il secondo, dotto autore della voce “Cosmopolitismo” nel IV volume (1950) dell’Enciclopedia Cattolica (p. 706), fu assertore della tesi secondo cui “non sarà mai possibile sopprimere patria, nazione e Stato, realtà che corrispondono alle leggi più profonde della natura umana e sono richieste dalle esigenze razionali, sentimentali, morali e fisiche dell’uomo”.
A metà strada possiamo collocare la celebre e fraintesa (anche perché non del tutto chiara) formula del Manifesto di Marx ed Engels (capitolo II): “Ai comunisti è stato rinfacciato che essi volessero abrogare la Patria e la nazionalità: i lavoratori non hanno patria, non si può togliere loro ciò che essi non hanno”. Qui, in una lettura non polemica, parrebbe di poter leggere quasi un rammarico: l’oppressione di classe ha privato i proletari del “senso” di appartenere a una “patria”.
Peraltro la divaricazione tra l’originario giacobinismo, che identificava grossolanamente “libertà” e “patria”, e l’internazionalismo socialista, abbozzato nel finale del Manifesto e ribadito nella fondazione (1864) e vita stentata (fin dopo la Comune) dell’“Associazione Internazionale dei Lavoratori”, non potrebbe essere più netta. L’equivoco giacobino fondato sull’equazione tra “patria” e “libertà” ebbe esiti ottocenteschi e novecenteschi il cui orizzonte fu il nazionalismo. E non è fuori luogo ricordare la pertinente osservazione di Arnold Toynbee, grande storico inglese, autore tra l’altro dell’imponente epopea A Study of History (“La civiltà nella storia”), che l’Occidente colonialista (Francia e Inghilterra soprattutto, ma a suo modo anche l’Italia) hanno “esportato” il nazionalismo nei continenti che hanno colonizzato: dall’India al Medio Oriente all’Africa. In particolare il nazionalismo arabo, di certo il più aggressivo, pur con tutte le sfumature, dal Fnl algerino al Baath iracheno o siriano.
La mala pianta del nazionalismo, dopo aver inquinato gli altri continenti, portò l’Europa alla catastrofe (1914-1945) riducendola, alla fine, a realtà subalterna delle potenze che, da quel quasi mezzo secolo di contrasti e guerre, trassero il maggior vantaggio. Si è trattato di un movimento storico che rassomiglia all’interminabile lotta tra Atene e Sparta per l’egemonia, conclusasi col declassamento di entrambe a potenze secondarie.
Il coevo e successivo pensiero politico greco non propose alternative o correttivi ai gretti presupposti che avevano alimentato tale mentalità: forse talvolta solo la poesia si sottrasse a tale “pensiero unico”, per esempio la drammaturgia euripidea. Fu il pensiero filosofico post-aristotelico, sia di ispirazione stoica sia di ispirazione epicurea, a porre con imprevista lucidità la questione e la visione dell’unità del genere umano. Visione che ha due vettori: uno che scardina le differenziazioni sociali (già presente in alcuni esponenti della sofistica), l’altro che demistifica il concetto di “confine”. La formulazione più esplicita in tal senso la dobbiamo a una figura minore dell’epicureismo, Diogene di Enoanda (forse vissuto non molto dopo l’inizio del I secolo).
Si potrebbe osservare che vorremmo rintracciare in Epicuro stesso tale visione, ma non va dimenticato che dell’opera maggiore di Epicuro (i 37 libri sulla natura) non abbiamo che frammenti. E data la devozione “ortodossa” dei seguaci nei confronti di Epicuro, non è errato pensare che questa concezione, di cui ora diremo, fosse già nel maestro. L’ostilità irruenta di Lucrezio nei confronti della ferocia della politica, nonché il quadro che egli traccia (nel finale del libro V del De rerum natura) della concordia umana vigente nelle remote fasi storiche in cui “l’oro e la proprietà” (aurum et res) non avevano ancora preso il predominio, lo fanno pensare.
Cosa afferma dunque Diogene in uno di quei cospicui frammenti di sue opere che furono incise sui muri della Stoà di Enoanda (di fronte all’isola di Rodi) e che gli archeologi hanno recuperato a fine Ottocento e tuttora rintracciano? “Noi preparavamo – si legge in un frammento – queste cose per i cosiddetti stranieri, i quali in realtà tali non sono. Infatti, secondo le varie divisioni della terra, chi ha una patria e chi ne ha un’altra, ma invece in base all’intero complesso di questo mondo unica patria di tutti è la terra e il mondo è l’unica casa”. E in un altro frammento leggiamo: “Allora davvero la vita degli dèi passerà tra gli uomini. E infatti tutto sarà pieno di giustizia e di amore reciproco e non ci sarà impiego di muri o di leggi o di tutto ciò che macchiniamo gli uni contro gli altri, bensì cura per i prodotti necessari dell’agricoltura. Infatti per noi non ci saranno schiavi, areremo noi stessi la terra e ci cureremo del bestiame e devieremo i fiumi e scruteremo gli astri”.
Utopia? Forse. Sta di fatto che proprio le epoche di particolare ferocia (e le guerre civili romane, che portarono lutti anche a chi non si schierava, furono tali tanto da far preconizzare al poeta Orazio la fine della convivenza) suscitano per reazione pensieri di fratellanza, o almeno di convivenza, come è il caso di questo libro di Gabriele Segre. Libro che ha molti meriti, non solo stilistici e di efficacia argomentativa e letteraria, ma anche di realismo. Non vuol essere un libro di un sognatore, ma di un politico insofferente della disumanità dominante.
Il punto d’arrivo della riflessione di Gabriele Segre è questo: “Attraverso la cultura della Convivenza possiamo in primo luogo riconoscere la dignità delle identità di tutti senza capitolare di fronte a quelle che hanno valori diversi dalle nostre né stemperando quello che siamo in un’identità collettiva e nemmeno irrigidendoci nella nostra senza provare a trovare un dialogo”. Sintomatico il verbo “capitolare”. Comunque il problema è antico. Esso trovò le sue prime, aporetiche, risoluzioni nella scoperta, dovuta alla sofistica greca (grande movimento di pensiero), della superiorità della “natura” (physis) rispetto al valore convenzionale e cangiante delle specifiche “leggi” (nomoi). Una “scoperta” che responsabilizza gli esseri umani svincolandoli dall’idea che tutto è predeterminato e attuato da una volontà superiore (gli dèi o il fato), ma che, proprio perciò, può avere due esiti opposti: la prevalenza di chi è “per sua natura” più forte (e dunque in diritto di calpestare le effimere convenzioni altrui) o invece la tolleranza, che impone di rispettarle tutte, quelle convenzioni, appunto nella consapevolezza della loro equipollente specificità. Il greco d’Asia, Erodoto (V sec. a.C.) raffigura questo dilemma e prende posizione rispetto a esso mettendo in scena il comportamento del re persiano Cambise. Cambise (529-522 a.C.), come i suoi predecessori e come i suoi successori, aveva capeggiato un grande impero multinazionale (greci d’Asia, popolazioni anatoliche, Mesopotamia, Egitto, Afghanistan, tribù indiane ecc.). Egli derideva le usanze religiose di alcuni invece di rispettarle tutte: Erodoto porta l’esempio delle pratiche e usanze di sepoltura. Ma, appunto, per Erodoto, Cambise è “pazzo”, laddove – egli osserva – bisogna prendere atto del fatto che gli uomini “se invitati a indicare le usanze migliori, indicherebbero come migliori le proprie”. Per “convivere” – che è l’auspicio di questo libro di Segre – non possiamo non dirci erodotei. Grande viaggiatore, come Odisseo, Erodoto aveva visto “i costumi degli uomini”. Era nato ad Alicarnasso, si era trapiantato ad Atene, partecipò alla fondazione, in Lucania, della colonia panellenica di Thurioi e ne prese la cittadinanza. Da vecchio ebbe l’amarezza di vedere sprigionarsi il conflitto fratricida intergreco che già gli antichi chiamarono “guerra del Peloponneso”. Speriamo che non tocchi anche a noi l’analogo.
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