Corriere della Sera, 20 maggio 2024
Tadej esprime gioia e armonia
Non ci sono più definizioni per descrivere le imprese di Tadej Pogacar, ogni parola sembra inadeguata, ogni commento non è mai all’altezza di un simile campione. Quando decide di partire sembra una festa, non uno sforzo. Pogacar non è solo un fuoriclasse del ciclismo, è l’essenza stessa di questo sport che lui interpreta con uno sguardo innocente, quasi fanciullesco, pedalando con una facilità che non si era mai vista, vincendo con la gioia che è la gioia stessa di chi ama il ciclismo, di chi segue le avventure che ci riserva ogni giorno questo Giro d’Italia. Sulle rampe che portavano a Livigno, lo sloveno pedalava come stesse levitando, ha raggiunto uno per uno i fuggitivi fino a staccare l’ultimo resistente, ha recuperato in un baleno gli oltre tre minuti che lo separavano da Nairo Quintana, l’ultimo a cedere tra i protagonisti della fuga di giornata, per poi involarsi sul Mottolino e vincere in solitaria. Meglio, in solitudine, che è scuola di ebbrezza e che noi, uomini comuni, non frequenteremo mai. Gli altri corrono contro la fatica, un tormento che annienta, che stravolge, lui sembra correre contro la legge di gravità, la sua Colnago rosa assomiglia a un destriero ariostesco. In questi casi si dice che stiamo vivendo pagine di ciclismo d’altri tempi, ma non ci deve fare velo la nostalgia, la neve lungo i tornanti, lo zigzagare degli sconfitti, lo sterrato degli ultimi incolmabili metri: questo è il ciclismo d’oggi, un ciclismo mai visto, tecnologico e connesso, ma non per questo meno eroico, meno epico. Pogacar è bellezza, è armonia, è assolo, è un’opera d’arte su due ruote: è come se mettesse in discussione quelle che finora abbiamo percepito come i fondamentali del ciclismo. A volte, i corridori che vincono troppo non sono amati dal resto del gruppo, ma lui ha un sorriso per tutti, trasmette felicità, ridà un senso al movimento (nel duplice senso della parola). E ci fa ancora sognare, l’unico antidoto ai rimpianti.