Corriere della Sera, 20 maggio 2024
Quanti equivoci sul concetto di «Occidente»
«Occidente» è forse uno dei più fortunati pseudo-concetti del linguaggio politico. Ed è anche una nozione capace di contaminare in modo intermittente persino il linguaggio storiografico. Uno dei maggiori utenti di tale concetto fu Oswald Spengler (1880-1936) il cui libro più famoso e fortunato, Il tramonto dell’Occidente (1918), divenne presto un labirintico talismano (da pochi letto per intero: circa 1.500 pagine nell’edizione Longanesi curata da Furio Jesi, 1981) del Kulturpessimismus. Intuizioni, accostamenti geniali e fumisterie si mescolavano in quel talismano, apparso mentre crollava la Germania imperiale: un crollo che, molto probabilmente, per l’autore denotava appunto il «tramonto (Untergang, che significa anche “fine”, “affondamento”, “naufragio”) dell’Occidente».
Questo crollo diagnosticava Spengler nel presupposto che «Occidente» fosse l’Europa centrale (Mitteleuropa), portatrice di valori da Spengler fatti solo intravedere, e da lui ravvisati persino in figure quali Gioacchino da Fiore posto in relazione con Hegel (l’uno anticipava l’altro nella sua visione). Valori antitetici rispetto a quelli «mercantili» (Inghilterra): ma Spengler si concedeva persino un corto circuito tra Cromwell, Pitagora e Maometto.
Mentre Spengler lamentava il «naufragio» o «tramonto», avveniva intanto il trasferimento dall’Europa all’America settentrionale della funzione dominante: gli Stati Uniti diventavano allora centro propulsore dell’economia mondiale, centro nevralgico degli equilibri di potere, e persino modello culturale di massa. Ma per Spengler, come più tardi per Isaac Kadmi-Cohen (L’abominazione americana, 1930) – ucciso nel 1944 dalla Gestapo – e per Giorgio Pini (La civiltà di Mussolini tra Oriente e Occidente, Arte della Stampa, 1930), l’Occidente era l’Europa continentale laddove l’America era altro, e di certo un pericolo.
Nella riflessione dello stesso Spengler sulle dinamiche storiche si fa strada proprio il concetto di traslazione: traslazione per effetto di lotte cruente, del «centro» verso altre aree, pur nell’ambito di un Occidente in espansione. E porta l’esempio del «centro di gravità» del mondo antico, che, nel fuoco di conflitti secolari, «si spostò dall’Attica nel Lazio» (p. 708, ed. Jesi). E, ferrato com’è nella storia universale, porta subito dopo l’esempio della Cina, dove il «centro di gravità» passò dal Fiume Giallo al Fiume Azzurro. «Del Sikiang – scrive – i dotti cinesi avevano un’idea confusa quanto quella degli Alessandrini circa l’Elba e che nulla sapevano ancora dell’esistenza dell’India».
Questo sguardo lungo sull’avvicendarsi delle «civiltà» (di «civiltà superiori» parla Spengler, senza le necessarie cautele, nella seconda parte) lo ritroviamo, decenni dopo Spengler, nell’opera di Arnold Toynbee (A Study of History, compendiato dallo stesso autore in più maneggevoli versioni). Nel 1952 Toynbee, che aveva avuto anche un ruolo di consulenza nella Conferenza della pace (Versailles, 1919) per conto del Regno Unito, condensò la sua idea del movimento storico in sei radioconferenze per la Bbc intitolate Il mondo e l’Occidente, incentrate sul concetto fecondo di «sfida e risposta». L’Occidente, piccola parte del pianeta, ma dinamico, armato e in continuo aggiornamento tecnologico, ha «sfidato» e continua a «sfidare» il resto del mondo (Russia, islam, India, Estremo Oriente): ne discende – séguita lo storico – una «risposta» che comporta non solo conflitto ma anche compenetrazione e assimilazione almeno parziale del modello antagonista. Esempi memorabili, di un tale meccanismo, furono Pietro il Grande, zar iper-occidentalista, e la «germanizzazione» del Giappone ancora «medievale» fino alla metà dell’Ottocento.
Tutto il piccolo libro (ristampato anni addietro da Sellerio) è per noi vitale ancora nelle sue categorie portanti, adoperate da Toynbee con duttilità mai dogmatica. La fecondità di una tale lettura del movimento storico conduce – come è agevole osservare – al dissolvimento del concetto di «Occidente», il cui destino itinerante si risolve per un verso nella dinamica dello scontro di potenza e, per l’altro, nella continua mutuazione dei modelli esistenziali e del costume unitamente alla loro banalizzazione. Ragione non ultima della necessità di tener vivo – come antidoto – l’elemento «aristocratico»: un elemento che, non a torto, Tocqueville, nel corso della sua riflessione precorritrice (1835-1840) del «destino americano» dell’Europa (e noi diremo: del pianeta), ravvisava nelle elitarie e raffinate letterature antiche.
Non sarà dunque un caso che nell’odierna Cina, al tempo stesso «occidentalizzata» e «confuciana», e perciò stesso principale dissolutrice oggi del concetto di «Occidente», si traducano in cinese la Commedia dantesca ed il Corpus iuris giustinianeo.