Corriere della Sera, 20 maggio 2024
In Iran una frattura netta e incurabile
«Pregate per il nostro presidente Ebrahim Raisi». L’appello a tutti gli iraniani è arrivato dai canali ufficiali mentre, ieri sera, le ricerche dell’elicottero disperso al confine con l’Azerbaigian erano ancora in corso. Neppure una manciata di minuti dopo l’esortazione – a «restare uniti e devoti» – l’ironia dei dissidenti già circolava furibonda, inarrestabile: «Sì sì, preghiamo, ma forse non ci auguriamo lo stesso finale…».
La frattura è netta, scomposta, incurabile. Perché Raisi, 63 anni, in testa il turbante nero che secondo la tradizione dell’Islam sciita richiama una discendenza da Maometto, racchiude nella sua biografia la storia controversa e drammatica della Repubblica islamica iraniana: dalla Rivoluzione – celebrata anche in Occidente – che nel 1979 portò alla caduta dello scià, alla brutale contrazione della speranza e dei diritti che in 45 anni ha cementato una teocrazia illiberale e sessista, ingiusta quanto inefficace, incapace di mantenere anche una sola delle promesse di giustizia sociale delle origini.
Nato nel 1960 a Mashhad, la seconda città del Paese, città-santuario, Raisi ha costruito la sua carriera nel segno di una fedeltà incondizionata ad Ali Khamenei, Guida Suprema dal 1989. Qui vale la pena fermarsi e fare due conti. L’ayatollah Khomeini morì appena un decennio dopo il suo capolavoro geopolitico, all’indomani della fine della guerra Iran-Iraq. Da allora è Khamenei il volto incorniciato della Rivoluzione, l’uomo che prende l’ultima decisione, anche quella di attaccare Israele con missili e droni senza forze di interposizione, senza la mediazione armata dei «fratelli» che agiscono in nome dello stesso disegno integralista – Hezbollah, Houthi, Hamas. A 15 anni Ebrahim Raisi, orfano di padre, frequenta una scuola religiosa a Qom; alla fine dei Settanta partecipa alle proteste che abbattono la monarchia; a 25 è già viceprocuratore a Teheran. Non è brillante, ma leale, conservatore radicale, pronto a tutto. Anche a presiedere, con altri tre giudici, quella «Commissione della Morte», come verrà chiamata dalle organizzazioni per i diritti umani, che negli anni 80 manda trentamila iraniani, uomini e donne, sulla forca.
Quando perde le elezioni presidenziali, nel 2017, Khamenei lo nomina capo della magistratura e ne fa il vice dell’Assemblea degli Esperti, il board degli 88 «illuminati» cui spetta la nomina della prossima Guida Suprema, cioè il capo assoluto di uno Stato ibrido, così congegnato da Khomeini, che mantiene due linee di comando: quella religiosa e quella che dovrebbe essere espressione del voto popolare (parentesi fondamentale: l’astensione alle ultime elezioni, l’1 marzo, ha superato ogni record, nella capitale è andato alle urne circa il 10% degli aventi diritto). Raisi resta nel cerchio magico, sempre più claustrofobico, di chi conta: diventa presidente nel 2021, tra le contestazioni per l’assenza di rivali. E da allora governa, male: l’Iran è squassato dalla protesta delle ragazze e dei ragazzi, dalla caduta verticale del valore della moneta, dall’inflazione, dalla povertà che sta piegando il ceto medio.
«Speriamo che ritorni, che Dio riporti l’onorevole presidente e i suoi compagni tra le braccia della nazione», si è augurato Khamenei guardando da Teheran verso la tempesta di nebbia e incertezza al confine Nord-Ovest, affrettandosi a garantire che – nel frattempo – «non ci saranno interruzioni nel lavoro». Ma la verità, malcelata dietro l’ansia di una domenica che potrebbe tempestosamente cambiare la Storia, è che il regime – dopo neppure mezzo secolo di strada – ha poche pedine, poche carte da giocare per quei ruoli-chiave destinati a tenere in piedi con la forza l’architrave di un sistema traballante. In un Paese giovanissimo, con un’età media poco sopra i 30 anni, il potere è nelle mani di un drappello di anziani, rinchiusi, assediati dalla modernità. Il nome di Raisi era nella lista, ristrettissima, dei candidati allo scranno di Guida Suprema, transizione strategica dati gli ormai 85 anni compiuti di Khamenei. Accanto al suo, quello di Mojitaba, secondogenito dell’Ayatollah. Ma come può la Repubblica islamica, fieramente rivoluzionaria, ripiegare e reclamare una discendenza dinastica, di padre in figlio, come facevano gli odiati scià di Persia?
Per molti osservatori questo ingorgo spalanca la strada alle Guardie della Rivoluzione (Islamic Revolutionary Guard Corps, Irgc), quel corpo di pasdaran – creato per la difesa della nazione durante la guerra contro l’Iraq – che rappresenta oggi l’istituzione più in salute, un’élite che poggia su 120 mila persone arruolate, e stipendiate, e su milioni di volontari in ogni angolo del Paese. Uno Stato nello Stato. Al potere militare, in casa e all’estero grazie all’asse che arriva a Gaza, si è aggiunto un controllo sempre più serrato su settori emergenti dell’economia, tanto che la sfida – sotto traccia – è allo stesso clero, che pure rivendica la propria legittimità primaria.
La domanda è come potrebbero le giovani generazioni, che sono scese in piazza mettendo i propri corpi di traverso al regime, accettare un cambio di passo dai turbanti della teocrazia alle divise dei Guardiani, a quegli apparati che hanno gestito la repressione nelle piazze dopo la morte di Mahsa Jina Amini, la 22enne curda colpevole di una frangia svelata, nel settembre 2022. Gli stessi che hanno caricato Nika Shakarami, 16 anni, una teenager alla sua prima manifestazione, su uno dei camioncini che volevano spezzare e disperdere i cortei. Pensavano fosse «una leader dei disordini», un’adolescente che aveva detto alla zia: «Questa sera dormo da un’amica, non mi aspettare»… L’hanno caricata, picchiata con bastoni e pistole taser, stuprata, infine gettata cadavere sul marciapiede.
Discutiamo tanto della debolezza delle democrazie. Pensiamo che «gli uomini forti» sappiano garantire legge e ordine, magari assicurare prosperità e sicurezza. Gli uomini forti fanno soltanto il proprio interesse, sempre, non si sporgono neppure sul concetto di «bene pubblico». Creano caos, dentro e fuori i confini.