Corriere della Sera, 20 maggio 2024
Fabio Genovesi ricorda il suo incontro con Quentin Tarantino
Una sera ho cenato con Quentin Tarantino.
Hollywood, notte degli Oscar, tra mille luci così sfolgoranti da resuscitare il sogno americano.
No.
A Viareggio, sul lungomare, in piedi perché la Rusticanella è una pizzeria al taglio e non ci sono tavoli. Un trancio per uno, ho offerto io.
Era giugno, avevo diciott’anni e lui ventinove, io un liceale che faceva di tutto per essere emarginato e ci riusciva benissimo, lui un mozzo australiano o neozelandese su qualche barca in riparazione nei cantieri di là dal molo.
O almeno così credevamo, io e gli altri spettatori del Noir in Festival, rassegna dedicata al cinema horror, noir, d’azione o insomma film intensi, che quell’anno incredibilmente si teneva dalle mie parti dove non c’era mai niente del genere. Un’oasi salvifica per noi derelitti, che nella Versilia degli eventi esclusivi, del lusso e dei vip campavamo ai margini, senza riferimenti, senza un punto di ritrovo per anime simili alla nostra, se mai queste anime esistevano. Su un altro pianeta
Poi di colpo, assurdo e benedetto, questo festival. Una settimana di film e ogni giorno io ero lì, un’ultima occhiata al sole al mare alla luce piena di giugno, ai bagnanti che riempivano le spiagge per abbronzarsi tuffarsi conoscersi fare l’amore figliare divorziare e insomma mandare avanti a spintoni la deprimente società, poi affondavo nel buio della sala.
A un passo dal mondo e insieme su un altro pianeta. Perché là dentro c’era per me qualcosa di più luminoso del sole: la sensazione insolita e inebriante di essere strano, diverso, incompreso e forse incomprensibile, ma di non essere il solo. Nella penombra scoprivo infatti soggetti che mi somigliavano parecchio, isolati, in due, addirittura comitive di tre o quattro.
E poi lui, quel mozzo straniero che aveva svernato nella bruma e nel nulla della sua barca ferma in porto, e approfittava del festival per fare qualcosa di diverso.
Che lui ci fosse lo sapevi subito, perché non stava mai zitto. Era solo ma parlava, commentava a voce alta, se una scena lo esaltava il mozzo si alzava e gridava come un ultrà a una partita della sua squadra del cuore, che appunto era il cinema. Infatti gli è bastato il primo giorno del festival per meritarsi un soprannome, e appena partivano le sue grida ognuno commentava: «Riecco il Matto».
Una sera, tra le proiezioni del pomeriggio e quelle del dopo cena, il Matto me lo sono trovato accanto. Alla Rusticanella, sul lungomare di Viareggio famoso per lo stile liberty dei palazzi. Noi a questo stile non facevamo caso, perché là fuori ci stavamo il minimo necessario e i nostri occhi erano ancora impastati dalla magia del cinema: se alzavamo lo sguardo non vedevamo insegne e tetti decorati, ma il cielo misterioso, lo spazio, gli astri e le galassie abitate da chissà quante popolazioni aliene così diverse dall’umanità e – dunque – più simili a noi.
Intanto però, in attesa dell’invasione aliena, per sopravvivere ci occorreva un pezzo di pizza.
Io ero ancora emozionato, perché nel pomeriggio c’era stata una rassegna dedicata ai thriller italiani degli anni Settanta, magnifici e visionari, che il mondo incredibilmente ignorava. Il mondo impegnato appunto ad abbronzarsi, baciarsi, riprodursi e addio, e in questo suo eterno scivolare in superficie nemmeno intuisce i mille e mille tesori là sotto. Io invece ero un palombaro della vita, e appena vedevo baluginare qualcosa in profondità mi facevo il segno della croce e mi calavo laggiù.
E quando due palombari si incontrano, in fondo al mare o in fila alla Rusticanella, uno sguardo, un sorriso e già discorrono delle meraviglie che li appassionano. Horror, western, fantascienza, Bava, Fulci, Lenzi, Margheriti e tanti altri nomi che non potevo mai pronunciare con nessuno: mi capitava quella sera, con un marinaio straniero che gridava e gesticolava nella sua maglietta bianca e slargata.
Non avevamo tempo per curiosità mediocri e inutili, tipo da dove vieni, che lavoro fai, come ti chiami. Del resto, se mi avesse detto che si chiamava Quentin Tarantino e aveva girato «Reservoir Dogs» sarebbe cambiato poco, quel nome e quel titolo non li aveva sentiti nessuno.
Fino alla sera dopo. Quando c’era in programma un film appena passato a Cannes fuori concorso e in piena notte, di cui non sapevamo niente. Come niente ci aspettavamo dai film «nuovi»: dopo un pomeriggio di vecchie pellicole favolose, restavamo a guardarli solo perché volevamo dare un’ultima occasione alla modernità, o perché ci rassicurava scuotere la testa davanti alla costante inferiorità del presente, ma soprattutto perché il mondo là fuori non aveva nulla di meglio da offrirci.
Mi sono seduto mentre le luci si spegnevano, ma alla fine del film, quando si sono riaccese, hanno illuminato persone diverse: nessuno di noi era più lo stesso.
Ci sono film che riescono a prenderti, questo di più: ci aveva presi a schiaffi.
Aveva dentro tutto quello che amavamo del cinema di un’altra epoca, ma fatto a pezzi e frullato in modo che il succo schizzasse ovunque, inzuppandoci di un sapore che era antico e insieme rivoluzionario, veniva dal passato ma ci spingeva a calci in un luogo dove non eravamo mai stati, e dove finalmente ci sentivamo a casa.
Ecco perché l’applauso non è partito subito. Prima un attimo di silenzio sperso, in cui cercavamo di capire dove stavamo, dove avevamo la testa, il cuore, due mani da sbattere e una bocca per gridare. Poi è esplosa l’ovazione, furiosa e bollente, a sfogare un’emozione che era troppa per tenerla dentro.
Eppure, un minuto dopo, l’applauso è cresciuto ancora. Quando gli organizzatori del festival hanno annunciato che il regista era presente in sala e l’hanno invitato sul palco. E nello sgomento generale è successo quello che ognuno leggendo queste righe avrà capito da un pezzo, ma noi non potevamo immaginarlo, nemmeno dopo averlo visto – irriconoscibile – tra gli attori del film: in mezzo al delirio universale si è alzato il Matto, è corso là col suo sorriso storto e la maglietta bianca, ha abbracciato, si è sbracciato, si è voltato a noi sotto i riflettori che dall’alto rendevano ancor più grottesco il suo aspetto, il mento enorme, gli occhi stralunati.
E noi eravamo identici a lui, gli occhi increduli, le bocche spalancate che urlavano, le mani che battevano stravolte e felici. Felici davvero. Perché quello lì era molto meglio di un idolo: era uno di noi. Era ognuno di noi.
Non lo potevamo sapere, eppure si sentiva così chiaro, che come noi il Matto aveva passato l’adolescenza in una videoteca, lontano dalla società civile e in mezzo alle follie con cui si era arredato l’esistenza: quando la tua anima è un puzzle dai bordi strani, devi trovare là fuori pezzi altrettanto strani perché combacino.
Lui così aveva fatto, e adesso il suo magnifico puzzle si stendeva davanti a noi, addosso a noi, mostrandoci che nel muro nero della realtà è possibile inventarsi ogni tanto uno spiraglio. Raro, assurdo, ma possibile. Dandoci la forza di picchiare contro quel muro ancora e ancora, a testate a calci a capriole. Per abbatterlo oppure morire provandoci, ma in un botto clamoroso e spettacolare.
Così è andata, così va. E allora Grazie al Matto, grazie a un pezzo di pizza al taglio, grazie a quel film assurdo e visionario, girato con due soldi e dalla trama sgangherata, che è la nostra vita.