Corriere della Sera, 20 maggio 2024
Intervista a Paolo Gentiloni
Nel libro di Valentino il commissario Ue ricorda la fase del governo Conte
Non ci fu alcun negoziato, nel luglio 2020, per stabilire le quote dei 750 miliardi di euro del Recovery Fund da assegnare ai singoli Paesi dell’Unione europea. A decidere la distribuzione del fondo, che per l’Italia previde oltre 200 miliardi di euro, fu un algoritmo messo a punto da due alti funzionari della Commissione. La formula digitale si basava su criteri come il numero delle vittime da Covid-19 e i danni provocati all’economia dalla crisi pandemica. A svelarlo, in una intervista contenuta nel mio libro in uscita per Solferino, «Nelle vene di Bruxelles. Storie e segreti della capitale d’Europa», è il commissario europeo Paolo Gentiloni.
La notizia smonta in buona parte la narrazione dell’ex premier Giuseppe Conte, che ha sempre rivendicato il merito di aver assicurato all’Italia «un sacco di soldi». In realtà un negoziato, anche duro, ci fu. Ma fu sulla divisione tra aiuti a fondo perduto e prestiti e sulla governance. I Paesi frugali, l’Olanda in testa, avrebbero infatti voluto quasi tutti prestiti e soprattutto chiedevano di mantenere un diritto di veto finale sul rilascio delle varie tranche, imponendo una decisione del Consiglio europeo per ognuna di queste. Tentativo, quest’ultimo, sventato dalla tenacia e dall’abilità della nostra diplomazia.
Riportiamo di seguito parte dell’intervista al commissario Gentiloni.
«Il punto di partenza, secondo me è che in generale la casa comune europea è da un lato una meravigliosa costruzione, un vero miracolo, dall’altro una gigantesca incompiuta, rimasta tale negli ultimi anni, nonostante la Commissione attuale sia riuscita a fare delle cose importanti, anzi in alcuni casi rivoluzionarie. Siamo passati dalla demonizzazione all’invocazione dell’Unione europea: prima era “il nemico” e adesso è “l’assente”».
Prima le si rimproverava di far troppo, adesso le si rimprovera di far poco?
«È una situazione un po’ delicata quella in cui si svolgono queste elezioni, dove il grande tema è che l’Unione ha fatto dei passi avanti straordinari ma il mondo è avanzato ancora più velocemente. Jacques Delors diceva che, se il mondo accelera, anche noi dobbiamo farlo. Il problema è che noi abbiamo accelerato ma il mondo ha accelerato molto molto di più. Questo può riguardare la difesa come la competizione per le tecnologie, i temi ambientali come l’intelligenza artificiale. Le tante cose fatte dalla Commissione sono più lente di queste dinamiche, con la conseguenza che il carattere di incompiuta del progetto europeo non solo è rimasto, ma si è amplificato».
Questo è vero sia nella percezione che nella sostanza?
«Le cose fatte qui non sono state unidirezionali. Ci sono le grandi cose positive: la reazione alla pandemia, i vaccini, il Next Generation EU, SURE, l’unità sull’Ucraina, il Green Deal. Tutto vero. Non c’è dubbio che la Commissione svolga oggi un ruolo molto più forte. Ma contemporaneamente si è rafforzata anche la dimensione intergovernativa. Quello di Bruxelles è un edificio un po’ sbilenco. Oggi si potrebbe rispondere a Kissinger che il telefono dell’Europa c’è ed è quello di Ursula von der Leyen. Se vai in giro per l’Europa con lei, la gente la riconosce per strada. Però nel frattempo il ruolo dei governi non si è affatto indebolito, anzi. Quindi in questa architettura non si è rafforzata la dimensione politica e democratica».
Facciamo un esempio?
«Certamente abbiamo fatto un miracolo con SURE e soprattutto con Next Generation EU, stabilendo il precedente che si può fare debito comune, ma se non fai passi ulteriori rischia di essere archiviato male, nel senso che tra qualche anno ne verranno ricordate piuttosto le fatiche, le complicazioni. Emettere debito comune per 800 miliardi senza dedicare un euro a progetti comuni è stata un’occasione persa. Tutti questi soldi sono stati dati in base a un algoritmo ai vari Paesi, mentre è chiaro che i finanziamenti comuni europei dovrebbero innanzitutto andare a progetti comuni».
Un algoritmo? Ma non li abbiamo ottenuti grazie a una lunga battaglia?
«Parlo delle quote di finanziamento assegnate ai diversi Paesi. Non sono state negoziate dai capi di governo. Sono state ricavate da un algoritmo che è stato tra l’altro ideato e definito da due direttori generali (entrambi olandesi). C’è un po’ di retorica italiana sul fatto che abbiamo conquistato un sacco di soldi. Non è vero. L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo».
L’esperienza del Next Generation EU potrà essere ripetuta?
«Non abbiamo altra scelta che fare debito comune per finanziare beni comuni europei. Il che non significa prolungare l’attuale Next Generation EU, ma usare lo stesso metodo. Anche questo però se non si accompagna a passi concreti verso un tesoro comune europeo, rischia di rivelarsi un’incompiuta».
Parlando dei limiti, se non riuscissimo a superarli, facendo i passi ulteriori di cui lei parla, quale sarebbe il rischio?
«Mi posso sbagliare ma penso che salvo scenari catastrofici, un’implosione dell’Unione europea non è immaginabile. Immaginabile è semmai che dopo aver fatto uno straordinario passo avanti, se ne facciano due indietro. Perché, se uno mette l’orecchio a terra quello che viene fuori non è sempre rassicurante. Prendiamo i tre principali Paesi, Germania, Francia e Italia. In modi molto diversi, in tutti e tre c’è una spinta a dare peso ai governi nazionali rispetto alla Commissione europea. In Germania è più forte, ma c’è anche in Italia e in Francia. E questo può dar luogo al vero scenario regressivo. Non riesci ad accelerare. E dunque, prendi atto dei passi avanti che non riesci a fare in economia, difesa, politica estera e così via e quindi ti condanni a essere sostanzialmente quello che l’Unione europea è stata per molto molto tempo, cioè un ottimo sistema di regolazione economica interna, mercato unico, movimenti delle persone, standard comuni. Ma poco altro. E se ci fosse questa marcia indietro, dove si fermerebbe?».
Quindi c’è il rischio di cadere?
«Non dico questo, ma è difficile rinunciare ad andare avanti senza indebolire Schengen, o l’euro. Il punto è che i passi compiuti sono stati talmente ambiziosi che non puoi fermarti in mezzo al guado. L’alternativa però non è la scomparsa o l’implosione, ma una marcia indietro che andrebbe gestita. Io credo nella possibilità di fare un nuovo balzo in avanti. Ma occorre una leadership concorde di Francia e Germania e un gioco di squadra con l’Italia e gli altri Paesi decisivi. E soprattutto con la Commissione, che tutti rappresenta».
Quali saranno le sfide che ha di fronte la prossima Commissione?
«Dovrà da un lato gestire l’attuazione delle cose fatte e dall’altro affrontarne alcune nuove. Sia le une che le altre sono molto complicate. L’attuazione riguarda sostanzialmente la fase finale del Green Deal, che i popolari cercheranno di presentare in campagna elettorale come il Green Deal di Frans Timmermans, ma che in realtà è quello di Ursula von der Leyen. Il suo partito, il Ppe, vorrebbe fare marcia indietro. Trovo surreale che in Italia di questi temi non si parli neanche per sbaglio. Poi ci sono le tre questioni sulle quali passi avanti enormi sono inevitabili: il rafforzamento della competitività, su cui sta lavorando Mario Draghi; la geopolitica, cioè la difesa comune e la politica estera; e l’ampliamento a Ucraina, Moldavia e Balcani che è di là da venire ma che occorre preparare, sapendo che l’ingresso di questi Paesi può scombussolare tutto. Ma qui torniamo al problema di prima».
Quello delle leadership?
«Sì. Ci vorrebbero leadership forti e non disarmoniche in Francia e in Germania. Ci vorrebbe un nuovo grande accordo tra questi due Paesi ma non solo fra loro, come ci fu all’inizio degli Anni Novanta tra la riunificazione tedesca e l’introduzione dell’euro. Oggi, semplificando, lo scambio potrebbe essere tra ruolo geopolitico e politiche economiche comuni. La Francia può discutere una dimensione europea del suo ruolo alle Nazioni Unite o del suo arsenale atomico? E la Germania può discutere di integrazione fiscale europea? Vaste programme, si può obiettare. Ma mirare molto in alto sarebbe nell’interesse di tutti».