Corriere della Sera, 20 maggio 2024
Ritratto di Hossein Amir-Abdollahian
il suo predecessore Javad Zarif – l’inglese impeccabile, i molti anni all’Onu— era sembrato l’uomo della possibile ricucitura. Lo strappo, lungo 45 anni, quello di Teheran con gli Stati Uniti. Ma quando ad agosto 2021 Hossein Amir-Abdollahian fu nominato ministro degli Esteri – con un plebiscito al Parlamento conservatore, 270 favorevoli e 10 contrari – agli analisti fu chiaro che la sua missione non sarebbe mai stata di ricucire alcunché. La prima visita di Stato da ministro: in Siria, da Bashar Assad, a riconfermargli amicizia. L’enfasi nei primi discorsi ufficiali: sul dialogo intra-regionale nel Medio Oriente. Sottinteso, con i più antiamericani dei vicini dell’Iran. Il motto della sua politica, Negah Beh Sharq. «Guardare a Est». Già dalla tesi di dottorato (in relazioni internazionali): un’analisi degli errori del Medio Oriente dopo l’11 settembre. Poi la carriera diplomatica. Si fece notare nel 2007, come mediatore junior nei colloqui tra Usa e Iraq, che l’Iran aveva condotto. Poi sei anni (2011-16) da incaricato d’affari per l’Africa e le regioni arabe: con contatti soprattutto in Iraq, Siria, Yemen. Presto si guadagnò in patria un nomignolo elogiativo: «Soleimani della diplomazia». Quel che il comandante della forza Qods, ucciso dai droni Usa a gennaio 2020, era stato per i militari, Amir-Abdollahian sembrava esserlo per i rapporti con l’estero. Il suo sostegno a Hamas, Hezbollah, agli Houthi yemeniti sono stati una costante della politica di Amir-Abdollahian, soprattutto dopo il 7 ottobre; di Soleimani ha ripreso l’idea di un «anello di fuoco» di alleati di Teheran per circondare Israele, e con i viaggi di Stato degli ultimi anni ha tenuto i contatti con le milizie islamiste con particolare zelo. Si è detto spesso un «soldato» di Soleimani, che consultava prima di ogni missione diplomatica. Parlava, vezzo antiamericano, un inglese pessimo: sui social molti video lo deridono e lo chiamano «l’ambulante del Beluchistan».