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 2024  maggio 20 Lunedì calendario

Intervista a Kirill Serebrennikov


Cannes
L’anima russa, scandagliata in tutte le sue più teatrali manifestazioni, immersa in salsa rock e poi punk, esecrata, ma sempre pronta a rinascere nella sua versione più appassionata, contraddittoria, nazionalista. I 9 minuti di applausi che accolgono l’anteprima di Limonov, in gara a Cannes commuovono il regista, Kirill Serebrennikov, anche autore della sceneggiatura (con Pawel Pawlikowski e Ben Hopkins) basata sul libro (Adelphi) di Emmanuel Carrére che appare in un piccolo cameo. Il protagonista, in un ruolo da maratoneta, ingrato e complesso, proprio come la personalità dello scrittore e poeta, rivoluzionario, rinnegato, attivista, fondatore del Partito Nazionale Bolscevico nel 1993, è l’inglese Ben Whishaw che regala il suo fisico esile e nervoso alla rappresentazione di un non-eroe dalle mille facce: «Lo vedo – dice il regista – come una specie di Joker russo».
Perché è importante raccontare oggi la storia di Eduard Limonov?
«Quando abbiamo iniziato a pensare al progetto, la guerra non era ancora iniziata, non potevamo immaginare che ricostruire la vicenda di un personaggio così controverso avrebbe acquistato tanti altri significati. In Russia si sta realizzando la visione di Limonov, lui desiderava il ritorno dell’Unione Sovietica, così la storia è diventata più penetrante e terribile, tutto quello che oggi sta succedendo ha origine negli scritti di Limonov. La sensazione è che stiamo vivendo nel mondo che lui aveva sognato, come se il Cremlino avesse tratto direttamente ispirazione dai suoi testi e da quelli del filosofo Aleksandr Dugin, membro del Partito Nazionale Bolscevico».
Nel presentare il suo film ha lanciato un appello di pace. Come vede la situazione attuale in Russia?
«Un sacco di gente da ogni parte del mondo continua a chiedere alla Russia di fermare l’invasione, ma chi è al potere non reagisce, il male è più forte, le cose peggiorano di giorno in giorno, c’è una forma di sadismo in quello che sta accadendo. È successo di recente che due artiste, Evguenia Berkovitc e Svetlana Petriitchouk, siano state messe in prigione con l’unica accusa di aver messo in scena una pièce teatrale. Le hanno trattate come se fossero terroriste o dissidenti, e invece sono assolutamente innocenti».
In che modo il conflitto ha influito sulla sua vita personale e sulla lavorazione del film?
«Una serie di avvenimenti dolorosi hanno travolto la mia esistenza, ho dovuto abbandonare il mio Paese. Ero felice di aver convinto Carrére a venire sul set, è arrivato il 25 febbraio 2022, quando tutti stavano lasciando la Russia perché iniziava l’attacco all’Ucraina. Non riesco a immaginare che cosa avrebbe pensato Limonov di tutto questo, compreso il bombardamento della sua città natale, Kharkiv».
Che cosa sapeva di Limonov prima di lanciarsi nell’impresa del film?
«Da ragazzo leggevo il suo quotidiano “Limonka”, era molto popolare tra i giovani, proprio per la sua natura alternativa e anticonformista. La sua vita si svolgeva sotto i nostri occhi, mi colpiva profondamente il suo coraggio, il suo modo di essere diverso da tutti gli altri. Solo dopo ho iniziato a seguire la sua evoluzione politica e la mia prospettiva è cambiata, Limonov ci diede un primo assaggio della violenza da cui ha avuto origine il fascismo russo».
Ha mai conosciuto Limonov di persona?
«C’è stato un periodo in cui mi capitava spesso di incrociarlo in occasioni mondane, era sempre in giro con la sua bellissima moglie Katia Volkova, scriveva su riviste patinate, in contrasto con la sua retorica anti-borghese. Non gli ho mai rivolto la parola, e non ho voluto incontrarlo nemmeno in seguito, quando ho iniziato a lavorare a questo film. Era diventato un uomo anziano, molto arcigno, non gli piaceva essere avvicinato, ma era molto contento del successo riscosso da libro, voleva essere una rockstar, sempre al centro dell’attenzione».
L’opera di Carrére è un best seller internazionale, secondo lei perché?
«Me lo sono chiesto spesso, è una cosa che mi ha molto sorpreso, non mi sarei mai aspettato che la vicenda di uno strano poeta russo potesse attirare tante persone. Significa, forse, che qualcosa del carattere di Limonov si riflette nel modo in cui viviamo. Dal punto di vista artistico, resta una figura esasperante, ma anche terribilmente attraente».
Pensa che il cinema possa avere una funzione significativa anche in fasi storiche così difficili?
«Purtroppo i film non possono bloccare le guerre, e quelli che le fanno non sono interessati all’arte. Loro sono impegnati ad assassinare la gente e il mondo intero non riesce a fare nulla per fermarli. Mi chiedo perché siamo così impotenti e inutili davanti alla malvagità umana».
Ben Whishaw offre una straordinaria prova d’attore. Come è andata con lui?
«Credo che la sua, più che un’interpretazione, sia una vera e propria impersonificazione. C’è qualcosa di misterioso nella sua radicale trasformazione, di sicuro sulla performance ha molto influito il suo accurato lavoro di preparazione. Ben ha assorbito una gran quantità di immagini di archivio, della troupe facevano parte tante persone che avevano conosciuto il vero Limonov ed erano tutte scioccate dalla sua totale aderenza al personaggio». —