La Stampa, 20 maggio 2024
Lo studio è l’arte della pace
Sentiamo di vivere in un mondo sull’orlo del precipizio e sentiamo bene: siamo sull’orlo del precipizio. Non lo siamo però a causa di quanto pensiamo immediatamente, ma perché è fuggita dal mondo la sapienza. Con questo non intendo minimizzare i problemi di oggi nella loro concretezza quali il cambiamento climatico, l’oscuro futuro cui ci consegna la tecnologia, l’imperversare delle guerre, la lacerazione del tessuto sociale, le massicce migrazioni e le conseguenti reazioni identitarie. Sono consapevole del fatto che le testate atomiche negli arsenali di alcuni Stati sono in numero tale da distruggere più volte questo nostro piccolo pianeta blu, meraviglia assoluta nel nero dello spazio cosmico. So bene, inoltre, che l’umanità non ha mai vissuto tempi felici, mi ricordo bene l’incipit di Kant nel saggio sul male radicale: «Il mondo va di male in peggio: è questo un lamento antico quanto la Storia». Proseguiva: «Secondo questa prospettiva, noi oggi (un oggi che però è antico quanto la Storia) viviamo nel tempo estremo: l’ultimo giorno e la fine del mondo sono alle porte». Era il 1793, ma ancora oggi ognuno può cantare con Mina «Sono ancora qui» e con Vasco Rossi «Sono ancora qua».
Il precipizio allora dov’è? Nel fatto che un tempo si aveva un punto fermo a cui appellarsi per iniziare a tacere e poi forse ragionare, e questo conferiva la speranza di poter sempre ricominciare. Non a caso Kant poteva scrivere negli stessi anni un saggio sulla pace (Per la pace perpetua del 1795) nel quale ipotizzava un mondo in cui il potere si sarebbe inchinato alla giustizia, alla politica al diritto, e su questa base, uscendo dalla logica della forza ed entrando in quella del diritto internazionale, costruire effettivamente la pace. Il punto fermo della mente lo si poteva chiamare Dio, Ragione, Socialismo, eccetera: rimaneva il fatto che l’umanità lo possedeva e quindi era capace, a un certo punto, di tacere, ascoltare, pensare e accordarsi. Vi era la possibilità di un esercizio pubblico della sapienza. Uno diceva «in nome di Dio», o «in nome della Costituzione» e tutti ascoltavano.
Oggi il punto fermo è scomparso e per questo dico che la sapienza è fuggita dal mondo: tra noi non vi è più nulla di comune a cui tutti insieme appellarsi. Ne viene che ognuno è pronto a dire all’altro cosa deve fare, ma nessuno sa più ascoltare le ragioni dell’altro. Gli ecologisti dicono agli economisti e agli imprenditori quello che devono fare, ma non ascoltano le ragioni degli economisti e degli imprenditori; viceversa, gli economisti e gli imprenditori mirano al profitto e a come contrastare la concorrenza senza curarsi del pianeta e delle condizioni disastrose denunciate giustamente dagli ecologisti. I pacifisti dicono ai governanti e alle forze armate quello che devono e soprattutto non devono fare, ma non ascoltano le ragioni dei militari che chiedono ai governi ancora più armi per non far vincere la tirannide; viceversa, i militari non si curano granché delle vittime civili, della progressiva distruzione di interi territori e del pericolo crescente di una guerra mondiale, oggetto della giusta denuncia dei pacifisti e probabile ultimo atto della storia dell’umanità.
A cosa possa portare il non-ascolto dell’altro lo manifesta nel modo più tragico il conflitto israelo-palestinese. Esso si è ormai così incancrenito che essere oggi per lo Stato palestinese significa volere la distruzione dello Stato di Israele e ritrovarsi con chi insulta la Brigata ebraica della Resistenza e con chi reprime la libertà delle donne e degli omosessuali; e viceversa stare dalla parte di Israele significa negare la terra ai palestinesi alimentando il progressivo furto di territorio da parte di quei signori di solito chiamati coloni ma il cui vero nome è ladri (quando non assassini: ricordarsi sempre dell’assassinio di Ytzhaq Rabin il 4 novembre 1995, io piansi), oppure ritrovarsi accanto all’attuale governo israeliano che si accanisce a tal punto contro i civili di Gaza che se non è genocidio poco ci manca.
A questo conduce l’incapacità di ascolto delle ragioni dell’altro per la mancanza di un punto fermo comune e della sapienza, e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Persino il Papa da un lato predica al mondo la pace, dall’altro non è capace di praticarla veramente a casa sua e continua ad attaccare i cardinali, la Curia e padre Georg.
Ebbene, all’interno di questo quadro abbastanza deprimente ogni tanto ci chiediamo cosa possiamo fare noi. La mia risposta è: cercare di capire esercitando la sapienza e l’equanimità. L’esercizio della sapienza consiste anzitutto nel desiderarla, per farla tornare almeno nel nostro cuore. E quando la sapienza ritorna, il primo dono che porta è l’equanimità, cioè il saper ascoltare le ragioni dell’altro.
Aristotele insegnava la “via di mezzo” quale criterio per condurre la mente perché è trovando il centro tra due polarità che si ottengono le virtù, tra cui spicca la sapienza. Lo stesso insegnavano il Buddha e Confucio. È la soluzione per tutti i problemi? Ovvio che no, ma non si deve mai dimenticare il precetto posto da Ippocrate a fondamento della medicina: “Primum non nocere”, “Primo non nuocere”. A volte, volendo guarire, si peggiora la situazione, mentre bisognerebbe prendere atto che non si può guarire ma solo curare. Fuor di metafora: a cosa serve essere pacifisti invocando la pace, se lo si fa con parole violente ricolme di odio che alimentano le radici della guerra? A cosa serve richiedere la creazione di uno Stato per un popolo, se lo si fa aspirando alla distruzione di uno Stato per un altro popolo? Se non si capisce come servire effettivamente la pace, molto meglio astenersi dal prendere posizione. La bandiera della pace ha i colori dell’arcobaleno a significare di voler contenere tutti, se diventa di una parte sola fallisce.
Per altri conflitti è più facile capire perché risulta chiaro chi aggredisce e chi è aggredito, chi combatte per invadere e chi per scacciare l’invasore, e allora si prende posizione appoggiando chi si difende dalla tirannide. Ovvio che mi riferisco alla guerra di difesa dell’Ucraina, a proposito della quale fin dall’inizio non ho avuto dubbi sull’opportunità di inviare aiuti, anche militari. Ma perché allora quando sento il presidente francese parlare di inviare i soldati, avverto un chiaro no nella mia mente? Paura? Sì, penso sia paura, e la paura è qualcosa di molto serio, è la prima delle sei emozioni universali, su di essa occorre sempre saggiamente riflettere. Hans Jonas giunse a scrivere di “euristica della paura": intendeva dire che la paura, se viene riconosciuta e non negata (perché a nessuno piace ammettere di averla), può aiutare a trovare. Euristica significa questo: metodo della scoperta («Eureka!», gridò Archimede dopo la famosa scoperta).
Insomma, quando si ha il privilegio di non essere nella mischia si tratta di vincere la tentazione di immischiarsi e di farsi guidare da queste parole di Spinoza: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle». La pace inizia nella mente che studia. Non ci può essere pace senza studio. E dallo studio della situazione apparirà una volta l’opportunità di agire, un’altra quella di non agire; una volta sarà giusto cedere, un’altra resistere. La saggezza, esercizio pratico di sapienza, è l’arte del discernimento.
Il mio naturalmente non è un programma politico, perché non si rivolge ai molti né tantomeno ai popoli, ma al singolo nella sua solitudine. Ha scritto Etty Hillesum ad Amsterdam sotto occupazione nazista: «In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità». Queste parole di una giovane donne ebrea scritte prima di essere deportata ad Auschwitz ci insegnano ancora oggi che il primo atto a favore della pace si compie nella mente: per liberarla dall’odio e studiare con equanimità raccogliendo la sapienza che ne deriva. Chi lo fa, capisce che se è bene manifestare per la pace, si tratta prima ancora di “essere pace”. —