il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2024
Quando la sinistra voleva le carriere separate
Il dibattito sulla separazione delle carriere nella magistratura non è nuovo. Nuovo e diverso è l’approccio al tema da sinistra. Il 12 giugno 2001 i deputati Giuliano Pisapia e Giovanni Russo Spena, di Rifondazione comunista, presentavano una loro proposta di legge per modificare l’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario “in tema di distinzione delle funzioni requirenti e giudicanti e di passaggio da una funzione all’altra”. Queste le loro motivazioni.
Il dibattito sulla separazione delle funzioni e delle carriere tra i magistrati del pubblico ministero e quelli giudicanti è sempre più attuale.
Già nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente vi fu un serrato confronto sulla collocazione costituzionale del pubblico ministero.
Se in sede di Sottocommissione era prevalsa l’idea di dare al pubblico ministero la più completa indipendenza alla pari di quella riconosciuta per i giudici, in Assemblea emersero due differenti posizioni: la prima di chi intendeva equiparare il pubblico ministero al giudice e la seconda di coloro che volevano dichiararlo “organo del potere esecutivo”.
La soluzione di compromesso formulata nell’emendamento Grassi (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario”) fu motivata, dall’onorevole Leone, con l’opportunità di “rimandare alla legge sull’ordinamento giudiziario lo stabilire quali saranno le garanzie del pubblico ministero, e poiché la legge sull’ordinamento giudiziario dovrà essere congegnata in perfetta armonia con la riforma del codice civile, con la riforma del processo penale (...) quella sarà la sede più opportuna perché, premessa la determinazione delle funzioni future del pubblico ministero, si possa stabilire se aumentare le garanzie, o abolirle o ricorrere ad un sistema intermedio”.
Dopo aver proclamato che “la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” (articolo 104, primo comma) e che i magistrati si distinguono solo “per diversità di funzioni” (articolo 107, terzo comma), la Costituzione dichiara che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (articolo 101, secondo comma).
Solo in due casi la Costituzione si riferisce in modo specifico alle funzioni del pubblico ministero: allorché dichiara che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (articolo 107, quarto comma, e 108, secondo comma) e nell’articolo 112 che sanziona l’obbligatorietà dell’azione penale.
Proprio in questo momento storico, realizzatasi la riforma del processo penale, appare in tutta chiarezza la necessità di coordinare il nuovo ruolo assunto dal pubblico ministero con la struttura costituzionale delle garanzie e dei diritti.
Nel nuovo processo penale vi è una netta separazione tra il ruolo del pubblico ministero e quello del giudice.
Il giudice – a garanzia di una corretta amministrazione della giustizia e nell’interesse dell’intera collettività – non solo deve essere – come espressamente previsto dall’articolo 111 della Costituzione – “terzo ed imparziale”, ma deve anche apparire il più possibile equidistante da tutte le parti processuali (pubblico ministero, imputato e parte offesa).
Ben diverso è, e deve essere, il ruolo del pubblico ministero che è una parte processuale e che quindi deve avere una specifica preparazione e professionalità. Riconoscere la sostanziale differenza tra la funzione requirente e quella giudicante equivale – diversamente da quanto alcuni temono – a garantire meglio la magistratura, la sua indipendenza e a prevenire il pericolo che ne sia inficiata la credibilità.
Non si può altresì non sottolineare che una più netta separazione funzionale non lede in alcun modo il principio di indipendenza della magistratura inquirente, la quale non è, e non deve passare, alle dipendenze del potere esecutivo.
Illuminante è al riguardo quanto sostenuto da Giovanni Falcone, che nel 1989 riconosceva che “comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, abbandonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale, paradossalmente, a garantire meno la stessa magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti”.
Non si può fare a meno di rilevare, peraltro, che la situazione italiana è del tutto anomala rispetto alla situazione della maggior parte degli altri Paesi europei, nonché da quella di altri Paesi extraeuropei, dove, seppure con forme diverse, è stata già operata, una netta distinzione tra le due funzioni. Il caso più interessante è sicuramente rappresentato dalla Francia dove la differenziazione di ruoli tra organi requirenti e giudicanti è talmente netta che nel 1993, con una legge di revisione costituzionale, è stata creata una sezione del Consiglio superiore della magistratura competente esclusivamente nei riguardi dei magistrati del pubblico ministero. In quasi tutti i Paesi europei (per esempio Inghilterra, Galles, Germania, Svezia ed Austria) ed in molti Paesi extracomunitari (valga per tutti l’esempio degli Stati Uniti d’America e del Brasile) la differenziazione delle funzioni o delle carriere è molto forte.
Anche in Italia è necessario e indifferibile un intervento legislativo teso a rafforzare la differenza di funzioni tra i magistrati, e non già in una logica di emergenza, ma in ottemperanza al dettato costituzionale. Giova ricordare, per evitare qualsiasi equivoco, che nel nostro ordinamento non vi è alcun rischio che una più netta separazione delle funzioni possa, in qualsiasi modo, determinare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo: lo impediscono (e sono questi argini insuperabili) l’articolo 112 della Costituzione, che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, l’articolo 104, primo comma (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”) e l’articolo 107, terzo comma (“I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”).
In questa ottica, la presente proposta di legge, con una serie di modifiche all’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, prevede che il passaggio dall’una all’altra funzione venga disciplinato ponendo delle limitazioni al passaggio fra i ruoli, a favore di una maggiore professionalità, nell’interesse della giustizia e dell’immagine di terzietà dei giudicanti.
La presente proposta di legge si propone il soddisfacimento di due esigenze essenziali: da un lato la necessità di accertare rigorosamente, in capo al magistrato che chiede il trasferimento di funzione, la sussistenza delle qualità personali e professionali adeguate allo svolgimento delle funzioni stesse; dall’altro, la previsione di una maggiore cautela nel passaggio da una funzione ad un’altra.
In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario, nel riaffermare la differenza tra la funzione requirente e quella giudicante, prevede che qualora un magistrato faccia richiesta di passare da una funzione ad un’altra, ciò possa avvenire solo su decisione del Consiglio superiore della magistratura, sentito il parere del consiglio giudiziario che deve tener conto delle attitudini per lo svolgimento della nuova funzione.
In caso di passaggio da una funzione all’altra, il magistrato deve essere destinato ad una sede di corte d’appello diversa da quella in cui ha esercitato le funzioni precedenti.
Il magistrato passato a svolgere funzione giudicante non potrà, per i primi due anni, essere destinato a svolgere le funzioni attribuite al giudice monocratico. E comunque la richiesta di un nuovo trasferimento da una funzione all’altra non potrà essere presentata prima che siano decorsi cinque anni di effettivo esercizio della funzione alla quale il magistrato era stato destinato.