la Repubblica, 20 maggio 2024
Quando il fato devia la Storia
L’epoca in cui viviamo è così fragile ed incerta che ogni evento imprevisto può fare temereuna “nuova Sarajevo”. L’incidente di ieri all’elicottero del presidente iraniano Ebrahim Raisi è il secondo episodio del genere in una settimana, dopo l’attentato che ha gravemente ferito il primo ministro slovacco Robert Fico a Handlova, vicino a Bratislava. Entrambi sono fatti che si prestano a differenti interpretazioni, che producono ipotesi legate alla casualità o a complotti internazionali e che contribuiscono ad aumentare l’instabilità. Entrambi sono seguiti con il fiato sospeso dalla comunità internazionale, non solo per il fatto in sé ma pure per le potenziali conseguenze che possono scatenare.
In parte, è comprensibile, anzi giusto, che sia così.
In parte, l’ansia di un’altra Sarajevo di fronte a ogni elemento inatteso nelle cronache globali è un sintomo del disordine mondiale della nostra epoca, segnata dalle guerre in Ucraina e a Gaza, dal crescente conflitto fra democrazie e autocrazie, ora perfino da una potenziale contrapposizione nello spazio, come rivelano le indiscrezioni sui piani di Russia e Cina per raggiungere la capacità di distruggere le reti satellitari occidentali in orbita intorno alla Terra e sulle iniziative del Pentagono per contrastarli.
Anche l’era della Guerra Fredda, beninteso, portava con sé preoccupazioni molto serie: la paura di una terza guerra mondiale, a colpi di missili nucleari, fra Stati Uniti e Unione Sovietica, coinvolgendo i rispettivi alleati. Un Armageddon evocato nel 1983 da un film come The day after (Il giorno dopo
— sottinteso “dopo” un reciproco attacco missilistico fra Usa e Urss), guardato soltanto in America da 100 milioni di spettatori, incluso il presidente Reagan, che scrisse nella propria autobiografia di esserne rimasto fortemente impressionato e secondo alcuni fu spinto dall’orrore suscitato dalla pellicola ad avviare negoziati per la riduzione degli armamenti con Mosca.
Ma la relativa stabilità della Guerra Fredda era mantenuta dal “Mad”, acronimo del concetto dimutually assured destruction (distruzione reciproca assicurata), oltre che traduzione in inglese di “pazzo”: la consapevolezza che nessuno appunto sarebbe così matto da iniziare una guerra nucleare, perché nessuno potrebbe vincerla. E ciò ha contribuito a impedire che ne scoppiasse una.
Oggi non abbiamo più la stessa consapevolezza.
Vladimir Putin minaccia in continuazione di usare armi nucleari in Ucraina, forse soltanto un bluff per creare dissenso nei Paesi della Nato e rallentare o fermare l’assistenza militare a Kiev, ma comunque un “rumore di sciabole”, per dirla all’italiana, che riesce nell’intento di creare apprensione.
Per la prima volta dalla rivoluzione islamica del 1979, in aprile gli ayatollah iraniani hanno lanciato un attacco dal proprio territorio con centinaia di missili contro Israele o, meglio, contro “l’entità sionista”, come preferiscono chiamare lo Stato ebraico per non doverne nemmeno pronunciare il nome, mantenendo l’ambizione di farlo scomparire, prima o poi, direttamente o con l’aiuto dei loro “eserciti per procura”, tra cui i jihadisti palestinesi di Hamas, come hanno dimostrato il 7 ottobre scorso.
E la Cina, alternando segnali di distensione o di irritazione all’Occidente, abbracci a Putin e intimidazioni a Taiwan, «in ultima analisi aspira a rimpiazzare gli Stati Uniti come principale potenza planetaria», ha ammonito recentemente sir Richard Moore, il capo dell’Mi6, lo spionaggio britannico.
Circoleranno probabilmente ipotesi di ogni tipo sulla causa dell’incidente che ha fatto precipitare l’elicottero del presidente Raisi, un “falco” in precedenza capo del potere giudiziario, soprannominato “il macellaio di Teheran” e uno dei candidati alla successione dell’ayatollah Ali Khamenei, il leader supremo iraniano al potere dal 1989. Nell’incertezza sull’accaduto, la pur talvolta fragile alleanza fra le democrazie non può fare altro che restare unita. Come fece dopo l’attentato di Sarajevo del 1914 contro Francesco Ferdinando, l’erede al trono dell’impero austro-ungarico, convenzionalmente ritenuto la miccia della Prima guerra mondiale.