la Repubblica, 20 maggio 2024
Come difendersi dalla Cina
La Cina annuncia una prima ritorsione contro le barriere commerciali alzate dall’Occidente, le tariffe di Biden su chip e tecnologie verdi e quelle che a breve Bruxelles potrebbe imporre sulle sue auto elettriche.
Pechino doveva rispondere, se non altro per non perdere la faccia, e la timidezza della reazione – un’indagine sulle importazioni di un polimero industriale – conferma la sua attuale debolezza. Ma la nuova escalation commerciale mostra una volta in più come il vecchio ordine, quello della globalizzazione, si stia frammentando sotto i nostri occhi. E quanto sia urgente per i Paesi europei, per l’Europa, mettere in campo una strategia comune per non farsi schiacciare dalla nuova competizione geoeconomica.
Il primo passo, come ha ripetuto più volte Mario Draghi, è capire che il mondo è cambiato. Le guerre di Putin e la sfida per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina impongono un paradigma diverso, in cui capacità industriale, tecnologia e commerci sono tutti aspetti – all’occorrenza: armi – della politica di potenza. Un dis-ordine in cui non comanda più la logica economica dell’efficienza e dei vantaggi comparati, bensì quella politica della sicurezza, spesso gioco a somma zero. Il cambio di mentalità non è banale, per un’Europa che nasce come unione economica. E se a Bruxelles la consapevolezza è in parte emersa, molto meno in alcune capitali, a cominciare da Berlino.
Il secondo passo è definire la strategia. Si intende: una propria strategia, perché se gli interessi europei non sono certo quelli della Cina, “concorrente e rivale sistemico”, non si sovrappongono del tutto neppure a quelli dell’alleato americano. Per una serie di ragioni strutturali l’Europa ha bisogno che alla ricerca di maggiore autonomia strategica – ridurre la dipendenza dalle importazioni, diversificando le forniture o sostituendole con produzione interna – si accompagni una difesa dell’apertura, dei commerci e degli investimenti.
Questo ha a che fare con gli strumenti da utilizzare, il terzo passo. I dazi sulle auto elettriche cinesi, che potrebbero arrivare a breve, così come le recenti indagini anti-sussidisulle aziende di pannelli solari o apparecchi medici, mostrano che Bruxelles sta rafforzando i meccanismi di difesa. Ma proteggersi è solo metà dell’opera, peraltro la più problematica: le barriere possono penalizzare consumatori e imprese trasformatrici, rallentare la transizione verde, diminuire la competizione. Vanno limitate a settori strategici, misurando con attenzione costi e benefici, con il chiaro obiettivo di spingere la Cina a eliminare le sue pratiche distorsive, cioè a rispettare le regole, e non per forza di rimpiazzare i suoi prodotti (in vari casi impossibile). Una sfida sicuramente virtuosa invece è quella sugli investimenti, in capacità produttiva e ancora di più in ricerca e innovazione. Ed è sotto questo aspetto che il ritardo dell’Europa nei confronti di Stati Uniti e Cina è abissale, vedere per esempio l’intelligenza artificiale.
L’ultimo passo sono quindi i vari governi europei a doverlo fare. È la presa di coscienza che la risposta a questa sfida può solo essere comune, più Europa, perché anche i più grandi degli Stati dell’Unione sono piccoli al cospetto delle superpotenze. I segnali, purtroppo, vanno nella direzione opposta. Anziché mobilitare nuove risorse comunitarie per finanziare le transizioni, i leader hanno deciso di allentare le norme sugli aiuti di Stato, creando competizione interna e avvantaggiando i Paesi con maggiori margini di spesa. Nel frattempo il mercato comune, come denunciato da Enrico Letta nel suo rapporto, non avanza, anzi fa passi indietro.
In nome della sicurezza nazionale ed economica i governi sembrano più preoccupati di proteggere il proprio orticello e le proprie aziende che a creare campioni europei in grado di generare crescita e posti di lavoro. E quello italiano non fa eccezione, con politiche industriali in molti casi velleitarie, lo scudo delgolden power alzato anche contro imprese comunitarie, una difesa del made in Italy basata più su gesti simbolici che sulla promozione di concorrenza e competitività. È la ricetta sovranista, che ha fatto proseliti ben oltre le forze che tali si definiscono. E rischia di condannare l’Europa all’irrilevanza.