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 2024  maggio 19 Domenica calendario

Luciana Littizzetto: “Ho imparato a fare televisione sui gradini della latteria. Quando scappo vado a Venezia”

Seduta sullo scalino all’ingresso della latteria, la bambina osservava i passanti: «Li scrutavo proprio, mi piaceva capire chi erano dai loro movimenti, dai loro sguardi. Ero testarda e certe volte impertinente. Ma ho incominciato lì, su quel gradino, a capire che l’importante nella vita è accorgersi degli altri, entrare nel loro stato d’animo, nelle loro gioie e nelle loro sofferenze. Una lezione che cerco anche oggi di portare con me».
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Cinquant’anni dopo la bambina è ancora lì. Ha sostituito il gradino della latteria dei genitori, in borgata San Donato, a Torino, con la scrivania di Fabio Fazio e da quel pulpito Luciana Littizzetto continua a parlare e a guardare al mondo, almeno a una buona fetta dell’Italia.
Nella sua casa di Borgo Po, ai piedi della collina di Torino, Luciana torna indietro nel tempo, «a quando andavo con le amiche all’oratorio di San Donato. Lì ho incontrato una persona eccezionale come don Gianni Fornero, un prete operaio, un intellettuale finissimo. Aveva fondato la Gioc, gioventù operaia cristiana. Mi faceva scrivere articoli sul giornale del gruppo». Che cosa hai imparato all’oratorio? «Tante cose. A chiacchierare, perdere tempo con le amiche, innamorarmi». Ti sei innamorata? «Sempre. Ma la prima volta seria è stato con un ragazzo della Gioc». Storie di una Torino di semiperiferia, dove le classi sociali si mischiano e si contaminano: «Quello dell’oratorio era, per la prima volta, un mondo in parte divergente da quello della mia famiglia. I miei genitori erano prudenti democristiani, la Gioc aveva un punto di vista diciamo più battagliero».

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C’è una foto, nel soggiorno, che è un pezzo di storia: «Non te la faccio riprendere, capirai perché. Quello è il giorno del matrimonio di “Minchia Sabbry”». Minchia Sabbry è uno dei primi personaggi di Littizzetto, quello che l’ha resa famosa all’inizio degli anni Novanta a Avanzi e Mai dire gol. Una ragazza tipica della periferia torinese, che parla un misto di dialetto del sud, parlata piemontese, qualche rara parola di italiano. Un gramelot inevitabile in una città che in dieci anni ha raddoppiato la popolazione mettendo insieme gli autoctoni con calabresi, siciliani, pugliesi. Dove nasce Sabbry? «Alla scuola media delle Vallette, dove insegnavo musica. Mi ero diplomata al conservatorio». Le Vallette, periferia nord di Torino, non sembrerebbe il luogo ideale per cominciare la carriera di insegnante: «Infatti all’inizio non è stato facile. All’epoca i ragazzi potevano rimanere alle medie fino a 16 anni. Io ne avevo appena compiuti 18, ero quasi una coetanea. C’era un problema di autorevolezza. “Franco hai portato il flauto?”. “Quello di plastica no”, e tutti giù a ridere».
Come sei riuscita a conquistare autorevolezza? «Con l’aiuto delle insegnanti più grandi di me. Persone eccezionali che erano in quella scuola perché l’avevano scelto, quasi una missione. E mi sono trovata bene anch’io. Ho capito che dovevo prepararmi molto prima della lezione per essere pronta a fronteggiare ogni situazione. I miei mi dicevano di smettere ma io non volevo pesare sul bilancio familiare. Alla fine ho imparato a insegnare. E Sabbry mi ha invitata al suo matrimonio». Non era una comicità immediata, quella di Sabbry: «Ah certo, parlava in un modo strano. In tv i romani non capivano. Perché il coatto di Tor Bella Monaca ha un altro accento, uno slang tutto diverso. Poi si sono abituati». Non è facile fare la comica con l’accento torinese: «Però è inevitabile utilizzare parole del dialetto perché hanno sfumature comiche che l’italiano non offre. Se io dico “balengo” non c’è una traduzione. Perché identifica un personaggio che è un po’ scemo ma non è cattivo. È una parola talmente unica che l’Accademia della crusca l’ha accolta nel vocabolario». Grazie a Luciana Littizzetto? «Eh, forse anche».
Come si passa dalla cattedra al palcoscenico, da una cattedra difficile in una scuola di periferia al set televisivo? «Eh ci sono dei punti in comune sai? In fondo anche nel mestiere dell’insegnante c’è una parte di show». Imparare a far ridere non è stato meno difficile che insegnare il flauto alle Vallette. «All’inizio andavo in un locale vicino a casa. Si chiamava “I magazzini di Gilgamesh”, si suonava dell’ottima musica e si faceva un po’ di cabaret. Ma sono andata anche in tanti locali sgalfi, tante sere passate a farsi le ossa». L’esperienza più educativa? «Un posto in centro che si chiamava l’Oca nera. Adesso non c’è più. Era uno di quei locali di tendenza dove facevano la cucina fusion. Hai presente quei piattini molto elaborati dove c’era poco da mangiare? Ecco. Quelli. Pagavi tanto e poi uscivi a farti una pizza perché avevi una fame boia. In quel posto si poteva prenotare la cena e, insieme, lo spettacolo di cabaret. Non andava molta gente. Certe sere facevo lo spettacolo per un solo tavolo. Un dramma: se non ridevano quelli, non rideva nessuno». E come si fa in questi casi? «Eh devi far ricorso alle tue forze interiori, saper guardare nel proprio retrobottega, come insegna Jung».
Quando la comicità diventa mestiere, mestiere apprezzato, si aprono le porte del grande pubblico. Come immagini il tuo pubblico? «Io penso di avere tanti pubblici diversi. Se fosse in un quartiere di Torino sarebbe Parella. Un quartiere che ha case popolari e altre più benestanti. Mi piacciono quei palazzi di un tempo, dove mettono la cera sulle scale di pietra. Così eleganti che certe volte rinunci all’ascensore per poterle ammirare meglio».
I target variano naturalmente da trasmissione a trasmissione: il pubblico di Fabio Fazio non è quello di Maria De Filippi. Che tempo che fa non è Tu sì que vales: «Sono molto grata a tutti e due perché mi aiutano a completarmi. Sono felice di avere pubblici diversi. Ti serve a non perdere contatto con la realtà, a vedere il mondo in tre D. Certe mattine mi capita di andare a fare la spesa al supermercato qui sotto casa. Un giorno una signora di origine rumena mi ha riconosciuto e mi ha detto: “Lo sa che ieri sera mi ha fatto davvero ridere?” Queste sono anche le mie soddisfazioni». Il successo ha degli inconvenienti: «Basta avere qualche accorgimento. Io nel mio quartiere mi trovo bene conosco tutti e tutti mi conoscono. Quando esco cerco sempre di essere presentabile perché nessuno vuole fare un selfie con la strega Nocciolina. Per questo quando ho tanto le briscole preferisco rimanere chiusa in casa». Impossibile passare inosservati.
La notorietà è arrivata con Che tempo che fa: «Con Fabio siamo fratelli. Ognuno sa che l’altro non lo tradirà. Anche se ce ne diciamo di tutti i colori. Quando vuole farmi arrabbiare tanto mi rimprovera: “Questo lo dice anche mia moglie”». Nessun tradimento anche al momento del trasloco dalla Rai alla Nove? «Nessuno. Infatti anche noi lo chiamiamo trasloco. Ci siamo spostati tutti, armi e bagagli, senza eccezione. E il pubblico ci ha seguito anche se era difficile cambiare l’abitudine del canale. Ora abbiamo anche una comunità social». Tutti si preparano probabilmente alla festa del sessantesimo compleanno, in ottobre: «Nooooo. Non voglio feste. Non c’è da festeggiare un bel niente. Quel giorno io voglio sparire. E diffido tutti dall’organizzare le terribili feste a sorpresa. Quelli che entri in casa, è tutto buio, accendi la luce e saltano fuori a decine da dietro l’armadio urlando tanti auguri. Tremendo». Dunque la fuga. Dove scappare? «Quando voglio sparire prendo il treno e vado a Venezia. Al circolo della vela dell’Isola di San Giorgio. Venezia è magica. Mi gusto anche l’odore di ristagno dei suoi canali. Perché a noi piace immaginare che siano profondissimi e magari sono alti solo un metro». La bambina che stava seduta sul gradino della latteria è diventata adulta e ha due figli in affidamento. Ancor più della carriera sono loro ad averle insegnato i segreti importanti della vita. «L’affidamento è un’esperienza bellissima. E non sai mai che cosa capiterà. Un’esperienza diciamo basculante. In cui impari tanto e soprattutto impari a sbagliare. È sempre così nell’amore. Vai avanti e poi sbagli e allora devi fare come il navigatore dell’auto che ti dice “Ricalcolo”». Luciana, che cos’è l’amore? «Un progetto, un’idea di insieme. Un senso. Quando smetti di lamentarti come una pieuva e fai la cosa più importante: ti accorgi degli altri».