Corriere della Sera, 18 maggio 2024
Richard Gere in sedia a rotelle
CANNES Richard Gere appare sulla sedia a rotelle, una coperta sopra le gambe. Ha i capelli cortissimi, bianchi e radi, la barba sfatta. Lotta contro il tumore. Che fine ha fatto l’American Gigolò di Paul Schrader? In Oh, Canada, dal bestseller Foregone di Russell Banks e in gara al festival, Gere e Schrader si ritrovano dopo 44 anni. In Italia il film verrà distribuito da Be Water col titolo I tradimenti.
È la storia di un famoso documentarista ormai anziano, intervistato in un servizio tv sulla sua vita da un vecchio allievo, al tempo in cui insegnava. Tra i suoi studenti c’era Uma Thurman, di cui lui fu mentore prima di sposarla, che assiste alla scioccante confessione del marito, il quale da giovane si rifugiò in Canada per evitare la chiamata alle armi nella guerra in Vietnam.
Mentre lui ricorda, il film con le immagini va avanti e indietro nel tempo, e lui da ragazzo (l’attore nel ruolo di Gere da giovane è l’australiano Jacob Elordi, che ha fatto Elvis Presley in Priscilla di Sofia Coppola) si presenta alla visita da leva con le mutande che hanno disegnati un fiore e il simbolo della pace. In età matura, molto prima di finire sulla sedia a rotelle, Richard Gere nel film appare brizzolato e in gran forma, 74 anni portati alla grande.
I turbamenti naturalmente sono altri da parte dell’idealista progressista americano la cui memoria a volte va in bomba e confonde le cose. Ma sono tante le menzogne su cui ha costruito la sua vita, e le responsabilità da cui è fuggito: «Ognuno di noi ha dei segreti – dice l’attore —. Viene un giorno in cui vuoi vuotare il sacco, e questo accade mentre hai una telecamera puntata su di te. È un tema di cui parlo nel film, realtà e finzione, a volte sembra che non si possa esistere se non come personaggi di finzione. Tutti “montano” la propria vita, anche nel subconscio. E mia moglie, donna forte interpretata da Uma, all’autore del documentario sulla mia vita urla: stop, basta, fermatevi».
Un altro choc è vedere il gentiluomo Richard così malridotto nel trucco, lui che resta giovane nell’immaginario. «Ma il senso del passato e delle radici – racconta l’attore col suo inconfondibile sorriso obliquo – è qualcosa che riguarda l’Europa. In America mi dicono, d’accordo sei Richard Gere, ma il tuo prossimo film di cosa parla?».
Non rivedo mai i miei film e quando proprio capita
mi imbarazzo veramente: mi sembro un’altra persona
D’altra parte nella storia sua moglie Uma Thurman, che lo ama pazzamente, lo definisce «un sopravvissuto». Lui sorride: «Avevo lavorato con Uma tanto tempo fa, nel 1991, in Analisi finale, dove interpreta la sorella piccola di Kim Basinger». Tre anni dopo Uma Thurman era in gara a Cannes (ha perso il conto di quante volte sia stata qua) per Pulp Fiction di Tarantino. Al suo secondo lavoro, vinse la Palma d’oro tra i fischi, lui reagì col dito medio alla platea e poi divenne un cult.
Richard Gere è amico di Paul Schrader, «c’è una fiducia reciproca totale, mi ha chiamato all’improvviso, mi ha detto di avere una storia pronta. Ok, conta su di me. Non ha scartato nemmeno una inquadratura». Di American Gigolò ricorda che andava «in moto, in jeans e tee-shirt, non avevo mai sentito nominare Armani, che vestiva il mio personaggio. Quando uscì il film mi considerarono un uomo elegante, ma ero un sempliciotto americano che non sapeva nulla di moda».
Dice di non rivedere mai i suoi film, «e quando proprio capita sono imbarazzato, mi sembro un’altra persona. Da ragazzo ero timido, giocavo a baseball e suonavo la tromba nella banda».
È in pace con sé stesso, felicemente buddhista («comincio le mie giornate con una preghiera, gli uomini sono tutti eguali nel desiderio di felicità»), lontano da Hollywood («ormai è una parola estranea, da 20 anni sono in film indipendenti a budget ridotto»), sposato con Alejandra Silva. Hanno due figli di 4 e 5 anni, «usciamo poco, la sera tutti a nanna alle nove e mezza di sera».