Corriere della Sera, 18 maggio 2024
Intervista a Yamamoto
Indossa sempre lo stesso cappello.Consunto. È quello che si toglie, con un inchino, per salutare dopo lo show. La leggenda narra che lo cambi una volta l’anno. A chiedergli conferma si riceve solo un sorriso in risposta. Non beffardo, ma scanzonato. Alle domande alle quali non pensa sia necessaria una spiegazione, lui fa così. È uno degli stilisti più stimati al mondo, ma è quasi impossibile incontrarlo. Dunque è un onore sedersi con Yohji Yamamoto san con la consapevolezza di aver di fronte un essere speciale. Molto speciale. «Cosa provo quando esco e mi inchino?» ripete prendendosi un tempo saggio per replicare: «Penso semplicemente che devo essere educato con il pubblico». Eccolo, l’uomo. Di una sincerità disarmante. Che con l’età si è solo affilata, già, come una lama.
Ottant’anni compiuti nel 2023. Una vita d’onore e oneri. Soddisfatto?
«Felice o soddisfatto, quale è la parola giusta? Comunque sì. Ma posso anche piangere. Il fatto è che mi sento sempre di passaggio».
La moda la motiva ancora?
«Domanda difficile, oggi. Disegno da più di 40 anni e ultimamente, confesso, mi sento un po’ stanco. Ogni volta inventare qualcosa di nuovo è faticoso. Ci sono momenti in cui mi sento prigioniero dei vestiti. Comincio a pensare alla fine e fosse per me vorrei che la mia linea se ne andasse con me».
Lei è amico di un altro mito, Wim Wenders.
«Abbiamo tanto in comune, a cominciare dalla guerra dentro vissuta da bambini».
Il «perfect day» di Yamamoto san?
«Mi sveglio al mattino presto. Porto fuori il mio cane, è un cane da caccia giapponese, ha bisogno di correre. Torno, faccio colazione, e se non sono stanco prendo l’auto e vado in ufficio».
Cioè guida? Nel traffico mostruoso di Tokyo?
«Sì guido, assolutamente. Tanti vorrebbero che smettessi perché sono troppo vecchio, ma adoro farlo. È la mia fonte di ispirazione. Né musei né arte, o chissà che cosa. Da noi tutti vanno nelle gallerie d’arte, sono malati, ma l’importante per loro è esserci non capire...»
Il grande Yohji crea così: né arte, né massimi sistemi?
«Ai semafori rossi, e sono tanti, io mi perdo a osservare la gente che passa e fantastico e mi ispiro. Quasi sempre le mie idee nascono da lì. Quando arrivo in ufficio le butto giù. Poi incontro i modellisti, i tessutai e via così. Sino a quando sono libero, finalmente. E me ne torno a casa».
Si sente a casa solo lì?
«Certo. Io sono edochiano (cosi si chiamano gli abitanti della metropoli ndr) e mi arrabbio sempre quando i critici scrivono giapponese perché non lo sono».
Che differenza c’è?
«Abissale, ma di politica non parlo». Sorriso.
Le piace la moda oggi?
«Moda artificiale».
Motivi la definizione.
«Sembra tutto troppo progettato. Noioso. Il problema sono le parole lusso e marketing. A nessuno interessa tagliare i vestiti. E questo è il punto. Perché se non lo sai fare non puoi creare».
Ha iniziato con una madre sarta, vedova di guerra.
«Volevo aiutarla. Non era felice. Avevo sempre in mente l’ultima volta che avevo visto mio padre che parlava dell’uniforme che gli avevano dato, era estiva e rifletteva con mia madre che forse lo avrebbero mandato al Sud, al caldo. Non tornò. Ero arrabbiato. E lei infelice. Quando divenni più grande le chiesi di entrare in negozio. Lei mi rispose che prima dovevo imparare a tagliare. Mi mandò in una grande scuola, per tre anni».
Le prime parole del suo vocabolario, eccole: uniformi, tagli, nero.
«A 17 anni un cliente mi portò delle riviste europee. Disegnai anche il mio primo capo: un impermeabile nero, avvolgente. Ho capito subito che volevo questo: disegnare abiti per proteggere».
Da ragazzo superai l’odio per gli americani giocando a palla
con un soldato: l’odio è una trappola.
La moda? Oggi è artificiale, tutto troppo pensato. Noioso
Ma le donne hanno ancora bisogna di protezione?
«Anche di più. Per questo io copro i loro corpi, per tutelarli. Odio lo spettacolo di mostrarli. Per me una donna coperta è affascinante e sensuale, un mistero».
Mai un tacco e un rossetto rosso perché le ricordano le prostitute che vedeva sotto casa da bambino.
«Esatto». Sorriso.
Spesso è lei a cantare nelle musiche dei suoi show, una voce profonda alla Leonard Cohen!
«Grazie. Avrei voluto essere un cantante ma poi ce n’erano tanti, troppi, più bravi di me».
La bellezza è?
«Lo spazio che c’è fra l’abito e il corpo».
Quelli della moda dicono che la bellezza può salvare il mondo...
«La gentilezza può salvare il mondo».
Nei libri di moda come vorrebbe essere raccontato?
«Mi dia 30 secondi di tempo per rispondere». Prego. «Vorrei che fosse scritto: Yohji Yamamoto, il designer che creava abiti per proteggere il corpo delle donne».
Lei dice di odiare il lusso, ma oggi una certa moda è anche molto costosa.
«Succede perché stanno scomparendo le fabbriche di tessuti, gli artigiani e con loro il business. E sarei anche contento se scomparisse e si tornasse a creare e a studiare. A cominciare dalle scuole. A mio figlio, che voleva fare questo lavoro, ho detto subito “studia e impara a tagliare”. Ma non nelle scuole di moda famose, lì ti insegnano solo la superficie».
E dei designer-star nelle maison?
«Devono fare ricorso a loro per far parlare dei vestiti che non ci sono. Ma non voglio altri nemici: per me non è moda».
I testimonial e i fan in delirio fuori dagli show, vedi il fenomeno K-pop?
«Come sopra: orribile. Io i social li odio. Vorrei fosse vivo Steve Jobs per chiedergli se avesse previsto tutto questo».
Cosa direbbe a Yohji bambino se lo incontrasse?
«Ma io sono ancora un bambino... Comunque penso sarei arrabbiato, molto con gli adulti. Allora lo ero per la bomba atomica oggi per le tenebre che vedo: le religioni non sono per gli uomini, ma il problema degli uomini. Da ragazzo superai l’odio per gli americani giocando a palla con un soldato. Quel sentimento, l’odio, era una trappola. È una trappola».
Per tutti il designer lei è un punto di riferimento: con chi di loro andrebbe a cena?
«Alaïa o Miyake».
Sono entrambi scomparsi. Oggi?
«Tutti gli stilisti che rispettavo non ci sono più». Pausa. «Sono stato arrogante? Mi scusi, non volevo». No, Yamamoto san, il sincero.