Oggi, 18 maggio 2024
Zerocalcare parla del padre
IL GENITORE zero
Per la prima volta Michele Rech, in arte Zerocalcare, dedica
un libro a suo padre.
E qui spiega perché è anche un modo per chiedergli scusa.
Ma parla anche
dei suoi incubi sulla destra e di un sogno
di nome Ilaria
di marianna aprile
foto di Maki galimberti
In 15 anni di fumetti, Zerocalcare (Michele Rech) di suo padre aveva scritto e mostrato quasi nulla. Mentre sua madre Genitore 1 dominava caustica la scena, quel Genitore 2 in forma di papero è rimasto sullo sfondo, evocato solo come l’origine di ciò che Rech sembra considerare tra le peggiori calamità ricevute in sorte: l’incipiente calvizie. A quel padre, da cui per anni lo hanno separato silenzi e pudori, ora Zerocalcare dedica un libro, Quando muori resta a me, che è anche un audiolibro per Storytel con le voci del fumettista e di Neri Marcorè. «Non lo so che m’ha detto il cervello, questo libro l’ho fatto un po’ a flusso di coscienza». Sarà per questo che quell’Armadillo che da sempre dà voce e corpo alla coscienza di Rech, nel libro quasi non c’è.
Quando è cominciato questo flusso?
«Ero andato a vedere il film Aftersun e mi era sembrato che le scene in cui la protagonista è in vacanza col padre mi parlassero. Avevano smosso qualcosa di intimo, ricordi con mio padre. Quando c’è qualcosa che mi si smuove così forte, mi viene voglia di esplorarla. Era un momento impicciato della mia vita, non ero al top, non ho pensato al fatto che stessi dando in pasto a tutti una storia familiare. Solo ora mi sto chiedendo se davvero avessi voglia di condividere alcune cose».
A suo padre quando lo ha detto che stava scrivendo del vostro rapporto?
«È stato complicato dirglielo. Gliel’ho detto ma non gliel’ho fatto leggere fino alla fine, su consiglio di mia madre. Lui si era convinto che stessi facendo il temino delle medie su “quanto è bravo mio papà”, l’ha detto agli amici, al sindaco del paesino veneto in cui si svolge parte della storia. E quando ha letto ciò che avevo scritto è rimasto un po’ così».
Così come?
«Prima di leggerlo, per una settimana abbiamo fatto avanti e indietro in ospedale perché aveva la pressione altissima. Per una settimana, dopo, ancora stava così. Ora mi pare tutto rientrato. A me poi questo libro sembra pieno di affetto. Credo che, leggendolo, mio padre abbia preso coscienza di difficoltà nel nostro rapporto di cui non si era accorto».
È, come sembra, anche un modo per chiedergli scusa?
«In parte sì. Non credo di esser stato un ragazzino che ha subito gli eventi, come il divorzio dei miei. Ero consapevole di quanto accadeva e so che alcune cose successe tra me e mio padre sono dipese dalla mia pigrizia, dal non aver fatto la mia parte nel coltivare il nostro rapporto. Gli adulti pensano sia responsabilità loro fare certi passi, ma io sono un po’ presuntuoso, credo di esser stato un bambino più sveglio degli altri: quindi ci potevo arrivare a capire che toccava anche a me».
Un anno fa, su Oggi, condivideva il suo aggrovigliarsi attorno all’idea di un figlio. Ora un libro che fa ordine nel rapporto con suo padre: è lo stesso groviglio?
«Un altro modo per mettere a tema la mia non paternità, che a 40 anni è una cosa su cui ragiono, che nel libro racconto in modo confuso, esattamente com’è nella mia testa. Ma non la risolvo con un libro».
Accenna anche al fatto che dopo la separazione dei suoi lei è cresciuto con sua madre e la sua nuova compagna. Anche per scrivere questo ha chiesto il permesso?
«Sì. E mia madre me lo ha dato. Mi ha detto solo: “Fai come te pare”. Io però credo di aver trattato la cosa con grande eleganza».
Perché a un certo punto della storia si disegna come Michele e non come Zero?
«Perché mi rendo conto che il mio rapporto con me stesso e quello che gli altri hanno con me sono falsati dal mio avatar, un confronto continuo tra me e questo personaggio nato quando avevo 25 anni. Passo tutto il giorno a rappresentare me stesso sentendomi un impostore, perché lui ha più capelli di me, è più magro di me, più giovane di me. Invecchio e ho la sensazione di prendere per il culo le persone con quell’avatar. Gli ho levato un po’ di capelli, ma invecchiarlo è difficile col tratto che ho io: una riga in più di ruga ed è un sessantenne. Rappresentarmi con un ritratto vero serviva a me, per mettere a fuoco questa questione, ma era anche un dovere di trasparenza nei confronti del lettore».
Scusi, ma perché? È un fumetto…
«L’idea che uno possa vedermi per la prima volta dal vivo e pensare che ho mentito sul mio aspetto per vanagloria mi devasta. Immaginare due ragazzini che si dicono “Ammazza, si disegna coi capelli e invece è pelato” mi uccide. Metto le mani avanti».
Nella serie Netflix Questo mondo non mi renderà cattivo definisce “nazista” chi è di destra sostenendo sia il solo modo dopo lo sdoganamento del fascismo. Un anno dopo la pensa ancora così?
«Mi sembra che le tendenze che c’erano un anno fa si siano o accentuate o manifestate pienamente per quelle che erano. Qualche settimana fa, in un servizio sulla destra radicale, ho visto i festeggiamenti per il compleanno di Hitler sul Lago di Garda, con tanto di cori sui campi di concentramento. Pochi sfigati, folklore. Ma il grado di separazione tra loro e il premier di questo Paese è uno: tra quelli lì c’erano almeno tre che stavano ad Atreju, nel circolo stretto del premier. Quindi penso che “nazista” resti il termine che meglio fotografa la realtà. Il che non significa che queste persone vogliano rifare i campi di concentramento, non hanno nessuna dittatura in testa, ma culturalmente sono quella roba là, in modo sempre più esplicito. La follia di questo momento storico, poi, è che ci sono persone che guardano con benevolenza al Ventennio, hanno i busti di Mussolini a casa, rivendicano come proprio patrimonio una storia tutta interna al neofascismo (tranne le stragi di Stato, quelle no) e questo non crea nessun problema a chi dovrebbe essere custode della memoria. E mi riferisco anche all’antisemitismo e alla comunità ebraica: c’è chi si abbraccia e ci si bacia con questi. È saltato tutto, il che rende difficile anche contestualizzare storicamente quel che sta succedendo in questo Paese».
Chi custodiva la memoria non è riuscito a trasmetterla perché si facesse storia. Anche qui un problema di cesura tra generazioni?
«Nella vicenda familiare raccontata nel libro questa cesura c’è stata. Che mio padre avesse attraversato i movimenti di piazza degli anni Settanta, per me era impensabile, per come l’ho conosciuto. Il fatto che lui non abbia trovato una chiave di racconto di quella sua esperienza rientra probabilmente – in senso più ampio – in quelle cesure della memoria che questo Paese ha».
Con una copertina e una serie di tavole su Internazionale ha contribuito ad attirare l’attenzione sul caso di Ilaria Salis. La sua candidatura alle Europee è una buona idea o, almeno, utile?
«In quell’aula di Budapest è tutto già scritto perché finisca con 20 anni di carcere, lo capisci seguendo le udienze: è tutto pro forma, con decisioni prese senza Camera di consiglio. Quindi oggettivamente non c’era altra soluzione per tirarla fuori da là che candidarla. Ammesso che riesca: se non riesce, la situazione rischia di peggiorare ulteriormente. Spero che Salis sia eletta e liberata, ma nella condizione di Ilaria ci sono altre 18 persone a processo e mi spiace che si sia trovata una soluzione individuale: le soluzioni individuali sono sempre una sconfitta. Quei riflettori accesi non sono serviti a niente, o ci inventiamo qualcosa all’altezza o il problema resta».
Ne scriverà ancora?
«Voglio continuare a seguirla questa storia. Ma uno dei miei paletti è sempre stato non fare campagne elettorali, non dire se o cosa votare. Un altro paletto è però non lasciare la gente da sola in galera. Devo capire come bilanciare le due cose. Però è deprimente che i lavori che ho fatto su Salis siano stati la cosa andata peggio in tutta la mia vita: solo commenti negativi, anche da lettori affezionati che condividono la mia sensibilità su tante cose. Mi hanno trattato come fossi un boomer giustizialista con Berlusconi e garantista con l’antifascista. Anche nell’opinione pubblica è tutto un copione già scritto, basato su una polarizzazione tra Meloni e una sinistra immaginaria di girotondi. Che manco esistono più».