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 2024  maggio 18 Sabato calendario

A bordo di Emergency

I pescatodi di anime
(in mezzo al mare)

La famiglia lontana, la fatica, gli occhi fissi sulle onde. Siamo saliti a bordo della nave di Emergency
per raccontare cosa fanno le donne e gli uomini  
che salvano vite nel Mediterraneo. Perché, come diceva Gino Strada, i diritti sono di tutti
di Marianna Aprile
«Secondo me Gino ci guarda ed è orgoglioso». Lo sussurra sul ponte un membro dello staff di Life Support, la nave umanitaria di Emergency che da dicembre 2022 fa ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, in cui negli ultimi 10 anni sono morte o disperse cercando l’Europa 22.631 persone. Gino è Gino Strada, fondatore della Ong che il 15 maggio compie 30 anni. L’idea della nave era sua, se n’è andato prima che fosse realtà. Da quando Luigi Di Maio nel 2017 coniò l’espressione “taxi del mare” (che Salvini e Meloni cavalcano), navi così sono additate come complici di immigrazioni illegali. Si è parlato di loro come di centri sociali galleggianti, speronatori, pirati, fiancheggiatori dei trafficanti di esseri umani. In realtà: le Ong portano in Italia meno del 10 per cento dei migranti; non hanno mai speronato nessuno; agiscono secondo legge; nessuna Procura ha dimostrato legami coi trafficanti. Ma la realtà fatica a far concorrenza alla propaganda. E così abbiamo deciso di salire a bordo di Life Support e raccontare uomini e donne che dedicano in tutto o in parte la vita a salvare quelle degli altri in mare.
benvenuti al lavoro
Imbarco ad Augusta il 22 aprile; la missione è la numero 19 e terminerà il 6 maggio a Napoli, con lo sbarco delle 87 persone salvate davanti alle coste libiche. Una premessa: a bordo non siamo ospiti ma membri dello staff; abbiamo partecipato a riunioni, esercitazioni e attività della missione, compresi salvataggio e accoglienza dei naufraghi. Abbiamo fatto turni di pulizia di bagni, cucina, sala mensa, living room (sala per riunioni e attività ricreative), scaricato provviste. Oltre a 9 marittimi, sulla nave ci sono, noi compresi, 19 membri di Emergency. Età media: 38 anni. Si va dai 24 del responsabile della comunicazione di bordo Zeno Morino ai 66 del deck leader (responsabile di quanto accade sul ponte esterno della nave) Flavio Catalano.
Ora, immaginate un posto in cui per ciascuno è normale fare la propria parte, rispettare orari e turni, convivere per 24 ore al giorno con altre 27 persone in spazi angusti, aiutarsi, evitare sprechi. Sulla Life Support ci si abbraccia molto e si recapitano cioccolatini, bustine di tè, bigliettini via “love box”, bacheca con una tasca per ogni membro dello staff. L’organizzazione è militare: per tutto c’è una procedura dettagliata, su cui vigila Micol de Brabant, 34, un compagno e una figlia piccola. È la responsabile della logistica, tutto a bordo passa da lei che dice: «Abbiamo solo imparato a fare benissimo una cosa assurda».
Il clima è spesso quello di una gita di fine anno. Un po’ per i giochi che si fanno al termine delle riunioni: creare la playlist musicale per la missione (è su Spotify, va da Dargen D’Amico ai Disturbed), votare il nome del cactus di bordo (vincerà “Victorovich”), pescare domande da una scatola. È un po’ per un’eccitazione che sale man mano che si scende verso la zona di ricerca e soccorso (Sar) libica. Il collante tra tutto è la certezza priva di supponenza di essere dalla parte giusta della storia. Fuori da questa bolla, c’è chi non la pensa così.
«per questa nave ho perso degli amici»
Al comando della missione 19 c’è Domenico Pugliese, sposato e padre di tre figli, sulle navi da 15 anni, su questa dall’inizio. «Il pregiudizio sulle navi umanitarie l’ho vissuto quando ho deciso di comandarne una: amici hanno smesso di parlarmi, altri mi hanno proposto lavori pagati meglio per tirarmi fuori da qui». Amarezza a parte, non ha dubbi: «Quello che i naufraghi hanno alle spalle e davanti non ci compete: il nostro compito è salvare. Chi affronta il mare senza mezzi e meta non può che considerarlo la sua ultima possibilità di vivere». Sui “tassisti del mare” è categorico: «Quando c’è una barca in difficoltà, attiviamo comunicazioni con le autorità italiana, libica o maltese, con trasparenza su qualsiasi attività e chiedendone il coordinamento». Ha visto raffreddarsi i rapporti con alcuni amici per via della scelta di salire su Life Support anche Maria Rametto, Sar coordinator, figura che comunica con le altre Ong, staff di terra di Emergency e comandante per portare a termine la missione. Ha 50 anni, è una delle pochissime comandanti donna in Italia e di solito lo fa per navi da diporto di privati. «Da sempre volevo dare qualcosa per aiutare gli altri, ma non sapevo come conciliarlo col mio lavoro. Con la ricerca e il soccorso in mare ci sono riuscita. Qui sono tra persone che come me pensano che il mare debba essere un posto sicuro per tutti, al di là dei vuoti legislativi e dei confini che noi immaginiamo abbia».
«non volevo restare indifferente»
«Non riuscirei mai a lavorare solo per arrivare a fine mese: voglio sentirmi pulito quando vado a letto, sapere che al risveglio farò qualcosa di utile». La storia di Luca Radaelli dimostra che dice il vero. Nel 2008 aveva 30 anni e un lavoro da infermiere di rianimazione in un ospedale milanese. «Dopo un’esperienza di sei mesi in Afghanistan con Emergency, rientrato a Milano non riuscivo più a trovare con me stesso scuse per restare indifferente. Mi sono licenziato e sono tornato lì; ci sono rimasto fino al 2017, diventando responsabile del progetto Afghanistan». Ora è nelle risorse umane e, quando può, sale su Life Support: «Siamo qui anche perché non si spenga l’attenzione su un mare che è cimitero delle vittime civili dei cambiamenti climatici e delle guerre del mondo». Ma siete percepiti come un problema... «Uno dei più grandi successi di questo sistema è far credere ai poveracci italiani che il loro problema siano i poveracci stranieri».
Poveracci stranieri che grazie alle Ong vengono a rubare il lavoro agli italiani: «Ho dedicato uno studio alla dimostrazione del fatto che italiani e migranti non competono negli stessi settori nella ricerca del lavoro», dice Jonathan Nanì La Terra. Ha 39 anni, è antropologo specializzato in migrazioni transnazionali e piccolo imprenditore del turismo a Marina di Ragusa. È il solo a bordo ad aver fatto tutte le missioni di Life Support. È il Sar team leader, gestisce le operazioni dei due “rhib” (gli scafi con cui vengono avvicinate le barche in difficoltà): «Non esiste un corso che insegni a salvare decine di persone da un barchino che sta per affondare. Abbiamo studiato dalle altre Ong, perfezionato. Ci esercitiamo perché ogni scenario sia gestibile».
«“quasi” non è abbastanza»
A bordo c’è anche uno staff sanitario. Oggi è composto da una medica e due infermiere, tutte provenienti da Programma Italia di Emergency, rete di ambulatori di prossimità per orientamento socio-sanitario agli stranieri e servizi infermieristici agli italiani indigenti. La dottoressa è Virginia Gatto. Ha 36 anni, master in medicina d’urgenza, compagno infermiere in Emergency, folgorata giovanissima da Gino Strada: «A 15 anni comprai la Smemoranda e lessi un suo scritto sulla difesa della salute. Ho iniziato a fare la volontaria dopo la maturità, ora lavoro con loro». Nella clinica di bordo, con lei c’è Sara Chessa, 39 anni, un figlio, coordinatrice dell’ambulatorio di Sassari, alla sua quinta missione in mare. È lei che sale sul “rhib” durante il salvataggio: «Ora so che so gestire lo stress». Sembra farle eco l’altra infermiera, Serena Buzzetti, esperienze in Africa e Kurdistan iracheno: «Qui impari ad accettare di non avere tutto sotto controllo a priori, perché in mare non sai mai cosa troverai».
A supportare lo staff sanitario ci sono i due mediatori culturali che parlano arabo, inglese e francese: Chiara Picciocchi, 30 anni, che lavora per Emergency a Ponticelli, periferia di Napoli, e ha già avuto esperienze in Tunisia, Turchia, Inghilterra; Tareq Aljaber, nato 36 anni fa a Damasco, insegnante di inglese e poeta. Puntella le giornate di riflessioni e massime. Quando gli si fa notare che quello che qui si fa è quasi un miracolo, risponde che almost is not enough, quasi non è abbastanza.