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 2024  maggio 18 Sabato calendario

I peggiori anni della nostra vita - 1

Una mattina della tarda primavera del millenovecentosettantanove ricevetti una telefonata da Salvatore Scarpino, vicecapocronista del Giornale, o meglio del Giornale di Montanelli come si diceva allora. “Brambi’, che è ’sta storia di quelli di destra che a Monza si menano con quelli di sinistra? A Milano queste cose non succedono più da un pezzo. E che siete ritardati, voi di Monza? Guarda che ti chiamerà Sterpa”.
   Sterpa, Egidio Sterpa, era il capocronista, ma con lui avevo parlato una volta sola, l’anno prima, quando mi aveva assunto come corrispondente da Monza, Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Cusano Milanino. “Ma solo in prova”, mi aveva detto, “tre mesi di prova. Perché preferiremmo prendere qualcuno un po’ più esperto”. Avevo diciannove anni. Passati i tre mesi di prova, l’avevo risentito: “Non abbiamo trovato nessuno di meglio” (e purtroppo, stava sicuramente pensando) “quindi ti teniamo”.
   “Ti chiamerà Sterpa”. Ecco, se Scarpino mi metteva paura, Sterpa mi incuteva terrore. Il Giornale era fatto da quarantenni e cinquantenni che a me parevano vecchissimi. Nomi sacri, leggende del giornalismo. Infatti Franco Di Bella, il direttore del Corriere della Sera, diceva che da via Solferino Montanelli s’era portato via l’argenteria di famiglia. A me parevano tutti vecchissimi anche perché era gente che non seguiva la moda del tempo. Di jeans, in via Negri – dove la redazione si era già spostata dopo i primi tempi al palazzo della stampa di piazza Cavour – non se ne vedevano. Quelle rare volte che entravo in redazione andavo solo al quarto piano, dove c’era la cronaca di Milano: gli altri piani, quelli con il direttore, Bettiza, Cervi e compagnia, erano per me inaccessibili come l’ufficio del megadirettore galattico di Fantozzi. E perfino in cronaca, che in teoria è la redazione più smart come dicono oggi quelli che sanno parlare bene, ci si vestiva come al Corriere dei tempi di Alfio Russo, anni Cinquanta. D’altra parte questo si considerava il Giornale: il vero Corriere, un po’ come gli scismatici di monsignor Lefebvre si consideravano la vera Chiesa. “Il Corriere di Piero Ottone e Giulia Maria Crespi ha tradito la vocazione borghese e liberale”. E insomma entravi in cronaca e vedevi solo giacche e cravatte perché di non mettere la cravatta non se ne parlava neppure; e grisaglie, e perfino qualche Borsalino appeso agli attaccapanni con i cappotti di cammello.
   “Che cos’è questa storia di Monza?”, mi chiese Sterpa. Era successo che davanti al Liceo Scientifico Frisi c’era stata una zuffa tra estremisti di destra e di sinistra. Botte della madonna. Le versioni erano contrastanti. Quelli di sinistra dicevano che sei ragazzi di destra, estranei al liceo, s’erano appostati all’uscita della scuola, ed era un’evidente provocazione fascista; quindi s’erano attrezzati con mazze e bastoni “per difendersi”. Quelli di destra: “Sì è vero che non siamo del Frisi, ma siamo venuti qui a proteggere un paio di ragazzi dei nostri, cioè del Fronte della Gioventù, perché quelli di sinistra li hanno già menati più volte”. Morale della favola: era arrivata la polizia e ne aveva arrestati sei. I sei di destra.
   “Com’è che a Monza succedono ancora queste cose?”, chiese Sterpa. “In effetti”, risposi con la salivazione azzerata, “il dottor Scarpino mi ha detto che a Milano non succedono più”. “In nessuna parte d’Italia succedono!”, mi silenziò Sterpa. Ed era vero. Le botte, le sprangate e le coltellate tra fasci e cinesi, insomma la violenza di piazza, era finita da un anno, dal sequesto di Moro e le bandiere bianche della Dc e rosse del Pci che sventolavano insieme. O forse addirittura era finita da due anni: dal raduno degli indiani metropolitani e degli autonomi a Bologna nel Settantasette, quando Cossiga detto Kossiga aveva mandato i carri armati a girare attorno alle due torri. Era rimasto il terrorismo, questo sì. Le Brigate Rosse. Le bombe nere. Ma i ragazzi si erano rotti le balle di massaggiarsi il cranio con le chiavi inglesi. Avevamo smesso di giocare alla guerra civile ed eravamo tornati ad occuparci delle due cose di cui ci si occupa quando si è giovani (una di queste due cose è il calcio).
   “Solo a Monza...”, le parole di Sterpa mi confermavano quanto ahimè pensavo da sempre, e cioè che la città in cui ero nato stava sempre in ritardo sui tempi. Come quando, nel 1964, aveva rifiutato la metropolitana. Una scelta che avrebbe condannato i monzesi, nei secoli dei secoli, a fare due ore di macchina ogni mattina per percorrere una decina di chilometri; oppure a stiparsi su quei treni dei pendolari che oggi i ragazzi chiamano spostapoveri.
   “Insomma dobbiamo capire come mai a Monza c’è ancora questo fenomeno, occorre una bella inchiesta giornalistica, e ovviamente non la puoi fare tu. Ti mandiamo un inviato, tu accompagnalo e fagli incontrare le persone che possono spiegargli che cosa succede”. Non ricordo se, riappendendo, mi abbia salutato.
   L’inviato che arrivò a Monza si chiamava Ignazio Mormino. Al Giornale era arrivato, come diversi altri, da La Notte, il quotidiano del pomeriggio che si stampava a Milano e aveva la redazione in piazza Cavour. C’era a Milano anche un altro quotidiano del pomeriggio, si chiamava Corriere d’Informazione ed era l’edizione pomeridiana del Corriere della Sera. E siccome a quei tempi tutto veniva etichettato come “di destra” o “di sinistra”, il Corriere d’Informazione detto Corinf era di sinistra e La Notte di destra. Anche perché il suo direttore, Nino Nutrizio, era un conservatore e come tale, in quegli anni, tacciato di fascismo. Stessa sorte di Montanelli.
   Nutrizio era un giornalista straordinario. Aveva staccato nelle vendite il Corriere d’Informazione inventandosi un’ultima pagina intitolata “Dove andiamo stasera”: c’era l’elenco di tutti i film e tutti gli spettacoli teatrali in programma a Milano, e sotto ad ogni titolo una mini-recensione di tre righe. Un colpo di genio che partiva da un concetto semplice: il giornalismo è, innanzitutto, un servizio. E poi, quel genio, Nutrizio lo metteva anche nella politica. Una sera, in quella trasmissione che certamente molti ricorderanno e che si chiamava Tribuna Politica, Nutrizio era tra i giornalisti che potevano far domande al politico di turno: Enrico Berlinguer. Erano gli anni in cui Pci e Dc erano tentati da una liaison dangereuse: il compromesso storico. Archiviamo i tempi di Peppone e don Camillo, che poi erano i tempi del triangolo rosso, e governiamo insieme: questo si dicevano, annusandosi, democristiani e comunisti. Di fronte a Berlinguer, Nutrizio teneva tra le mani non un taccuino, non un foglio con la traccia delle domande, ma una pentola, un pacchetto di spaghetti e uno di riso. “Onorevole Berlinguer”, fu la domanda di Nutrizio al segretario del Pci, “se io metto a bollire insieme in questa pentola gli spaghetti e il riso, ci sono due possibilità. Se spengo il fuoco tra dieci minuti, la pasta è pronta ma il riso è crudo. Se spengo tra venti minuti, è pronto il riso ma la pasta è scotta. Insomma in ogni caso esce un piatto immangiabile. Ora, lei come pensa di poter cuocere insieme il comunismo e la democrazia cristiana?”.
   E insomma. Dal 1968 in poi ne avevamo viste di tutti i colori. Manifestazioni cortei scontri bombe botte agguati occupazioni molotov P38 coltelli kalashinikov. E il Giornale, figlio di quei tempi, mandava un inviato per capire come mai in provincia si agitasse ancora una coda dei peggiori anni della nostra vita.
(1- continua)
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