La Stampa, 17 maggio 2024
La madrina dei coloni
Kedumim (Cisgiordania)
Daniella Weiss dice che la prima cosa che guarda la mattina appena sveglia è la mappa di Gaza come sarà domani. Ricostruita seguendo i progetti degli architetti con cui collabora, accogliente, prospera, abitata dai coloni e possibilmente senza palestinesi.
Non pensa sia un sogno, ma un progetto. E pensa che poche persone abbiano una visione. Lei la ha. Per questo non si cura di chi la critica e prova a ostacolarla. Continua a lavorare per la sua idea dello Stato di Israele come ha fatto negli ultimi cinquant’anni, anni nei quali è diventata per tutti: la madrina dei coloni.
Cercando notizie su di lei, la definizione più diffusa è: un’estremista di estrema destra del movimento degli insediamenti sionisti ortodossi israeliani ed ex sindaco di Kedumim, un insediamento israeliano situato in Cisgiordania. Lei preferisce descriversi così: «Sono una sionista, attivista, una delle maggiori figure del movimento dei coloni in Samaria e in Giudea, attiva nella creazione di nuovi insediamenti. Sono stata coinvolta nella costruzione – su un totale di 300 – di almeno 200 nuovi insediamenti. Educo i più giovani ad avviare nuovi insediamenti».
Daniella Weiss è la madrina dei coloni.
Chi la definisce estremista, dice, non capisce che i suoi atti e le sue parole sono guidati dalla Torah. Daniella Weiss è nata nella terra che sarebbe diventata lo Stato di Israele tre anni prima della sua fondazione, nel 1945. Suo padre era nato negli Stati Uniti e sua madre in Polonia.
Il suo impegno nella politica degli insediamenti è iniziato sulla scia della guerra del 1967, lei e la sua famiglia vivevano ancora a Tel Aviv. Poi all’inizio degli anni Settanta la decisione di trasferirsi in Cisgiordania e fondare col marito e un gruppo di amici l’insediamento di Kedumim nel 1975, illegale per la giustizia internazionale ma autorizzato e riconosciuto dal governo israeliano. Insediamento di cui è stata sindaco per due volte, in cui vive ancora oggi, dove vive anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, anche lui come Ben Gvir esponente dell’ultra destra religiosa, dove tutti si rivolgono a lei, ancora, mentre cammina, come fosse la guida di tutti. È stata anche arrestata numerose volte, anche per aver aggredito un agente di polizia e aver interferito con un’indagine sulla distruzione di proprietà palestinesi.
Quando si è trasferita a Kedumim, quasi cinquant’anni fa, ha vissuto in una tenda, poi la tenda è diventata una capanna, poi una roulotte, poi un prefabbricato, poi la grande casa in cui vive ora, arroccata su una collina che si affaccia sul terreno roccioso tutto intorno.
È a questo che prepara le giovani coppie che si rivolgono a lei. A essere pronte alla vita degli avamposti. Comunità che illegalmente si stabiliscono su un terreno, occupandolo, prima con tende e container, fino a farle diventare una nuova colona nella Cisgiordania occupata.
A questo serve il suo movimento, il Nachala Settler Movement, che lavora con i movimenti giovanili e incoraggia i giovani a prendere parte alle marce, alla raccolta di fondi attraverso “Hakupah Haleumit L’binyan Eretz Yisrael” (Il Fondo nazionale per la costruzione di Eretz Yisrael) e ad attività “pionieristiche” su nuove colline. Cioè nuove occupazioni.
Nachala significa madrepatria e si presenta così alle famiglie che vogliono farne parte: «Nachala organizza gruppi di giovani coppie il cui obiettivo è fondare nuove comunità in Giudea e Samaria. Ogni gruppo è composto da 15-25 famiglie. Il movimento ha piantato i semi di 250 comunità ebraiche sulle colline della Giudea e Samaria in cui vivono 600.000 ebrei». Ecco perché è la madrina dei coloni. Daniella Weiss prepara i futuri coloni psicologicamente, fisicamente, ad andare a vivere su una collina spoglia per trasformarla in una nuova comunità.
Come sua figlia, che vive nell’avamposto illegale di Evyatar, a venti minuti di macchina da Kedumim. E, sottolinea, il suo lavoro non finisce lì. Lavorare sulla gente senza lavorare per influenzare la politica, serve a poco. «Non sono nella Knesset, ma influenzo la Knesset e il governo». Non stupisce che alla marcia che, assieme ad altri movimenti, ha organizzato a Sderot il 14 maggio, Giorno dell’Indipendenza dello Stato di Israele, erano presenti membri del Parlamento e il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir.
La marcia verso Gaza
Tre giorni fa migliaia di persone – 11 mila secondo le registrazioni e 50 mila secondo gli organizzatori – hanno marciato a Sderot per chiedere il reinsediamento israeliano a Gaza. Di una Gaza, possibilmente senza arabi. La parola “palestinesi” Daniella Weiss non la usa mai perché, dice, è «un’invenzione moderna. Non esiste la Palestina quindi non esistono i palestinesi».
Tra i politici presenti due membri del governo, il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, membro del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu e Ben Gvir che ha parlato dal palco. Pochi minuti sufficienti per riassumere gli obiettivi futuri e i passati punti fermi del movimento dei coloni: «Dobbiamo tornare a Gaza adesso! Stiamo tornando a casa in Terra Santa! E dobbiamo incoraggiare l’emigrazione. Incoraggiare l’emigrazione volontaria dei residenti di Gaza. È un’azione morale! È etico! È razionale! È giusto! È la verità! È la Torah ed è l’unico modo! E sì, è umano! È la vera soluzione» ha scandito più volte.
È la seconda volta in pochi mesi che Ben Gvir propone «l’emigrazione palestinese da Gaza» come il modo più rapido per risolvere il conflitto. La prima era stata in occasione della conferenza tenutasi a gennaio, a Gerusalemme, per promuovere il reinsediamento nella Striscia e dimenticare l’onta e l’errore del 2005.
Si riferiva al disimpegno unilaterale israeliano da Gaza deciso dall’allora Primo Ministro Ariel Sharon nel 2005. 17 insediamenti ebraici della Striscia furono smantellati, 8000 persone trasferite, consegnando il territorio all’Anp: «La responsabilità del massacro del 7 ottobre – ha detto – ricade su coloro che hanno espulso gli ebrei da Gush Katif», cioè il principale blocco di insediamenti che si trovava a Gaza. «Spazzeremo via la vergogna dell’anno 2005 con la soluzione nell’anno 2024-2025, a Dio piacendo».
Già nel 2017 un altro ministro del governo Netanyahu, Bezalel Smotrich, aveva descritto l’incoraggiamento dell’«emigrazione» da Gaza come l’unica soluzione possibile. Il suo progetto si chiamava “Piano Decisivo” e prevedeva la soluzione a uno Stato e una soluzione per i palestinesi, «coloro che scelgono di non abbandonare le proprie ambizioni nazionali riceveranno aiuti per emigrare in uno dei tanti Paesi in cui gli arabi realizzano le loro ambizioni nazionali, o verso qualsiasi altra destinazione nel mondo».
Altrimenti detto: uno sfollamento forzato.
A Daniella Weiss la definizione di sfollamento forzato, o espulsione collettiva, tuttavia, non piace. Rifiuta persino che sia avvenuto durante la guerra arabo-israeliane del 47-49.
Il giorno dopo la marcia, quando riceve La Stampa nella sua casa di Kedumim, è molto netta: «Arabi di Gaza se ne vogliono andare, infatti stanno pagando per uscire da lì».
L’obiezione che stiano pagando per salvarsi la vita o la vita dei loro figli, perché vengono bombardati non la convince. Si dice sicura di sapere che vogliono lasciare la Striscia. Non importa verso dove «Islanda, Canada, o i loro amici arabi: Egitto, Giordania».
I confini della nazione ebraica che Daniela Weiss sogna «sono l’Eufrate a est e il Nilo a sud-Ovest, dall’Iraq all’Egitto». Non per questo, ci tiene a specificare, vorrebbe che Israele attaccasse domani l’Iraq o l’Egitto, ma a volte «alcuni eventi accelerano il percorso della Storia».
Come il 7 ottobre. Weiss sognava da tempo che gli israeliani tornassero a Gaza, ma non era nei suoi imminenti propositi fare pressione al governo per questo. Era impegnata a difendere i coloni in Cisgiordania e incentivare nuove famiglie a creare altri avamposti. Poi il massacro del 7 ottobre ha cambiato tutto. E lei ha cominciato a vedere davanti a sé la nuova Gaza.
La nuova Gaza
«Fino al 7 ottobre non avevo in mente nessun’idea di nuovi insediamenti a Gaza. Nel 2005, dopo il disimpegno, una parte di me ha pensato: abbiamo fallito, e per molti anni per me le porte delle ambizioni su quel territorio si sono chiuse. Mi dicevo, arriverà il momento, torneremo. Ora quel momento è arrivato».
Le mappe che mostra nel suo studio sono le stesse mostrate durante la marcia, l’idea del giorno dopo. Ricostruire l’area di Gush Katif e ricostruire tutta la Striscia«bella come Haifa».
Weiss ha già una lista di nomi di decine di famiglie che le chiedono un pezzo di terreno sul mare, per la qualità della sabbia soprattutto «la sabbia dorata di Gaza».
«Abbiamo un architetto che sta preparando dei rendering per vedere come sarà: bei quartieri, quartieri anche turistici e poi delle attrazioni certo. Ho un piano chiaro, specifico, immediato: prendere la Striscia, dividerla in lotti e darli ai soldati che hanno combattuto la guerra, ai feriti, alle loro famiglie e consentire loro di costruire le loro nuove case. Chi vuole andarsene che se ne vada ora. Gli arabi non resteranno a Gaza. Punto. Questa volta è finita. Il prossimo passo è che gli ebrei vadano là».
L’idea che la sua nuova Gaza possa nascere sulle macerie di questa guerra, su decine di migliaia di morti non la scompone. Pensa che lo stesso sia stato fatto a Dresda, e Hiroshima e Nagasaki «posti – dice – che sono stati distrutti e poi sono stati ricostruiti da persone normali».
Non la scompongono neppure le manifestazioni di protesta che ogni sabato a Tel Aviv chiedono le dimissioni del primo ministro Netanyahu. Daniella Weiss non vuole portare a sé quei cittadini, non vuole convincerli che sia giusto reinsediare Gaza.
Pensa che oggi la sua missione sia rendere più forti i giovani che marciano a Sderot per tornare a Gaza. Lo hanno fatto con lei quando viveva in una tenda prima e in un container poi, ora tocca a lei guidare i nuovi coloni.
«Quando al posto di questa casa c’era una tenda, quando eravamo in cento e non in cinquemila in questo insediamento, nessuno immaginava che saremmo diventati 700 mila in Giudea e Samaria. Eppure ora ci siamo. Perciò continuassero pure a manifestare a Tel Aviv, o nelle università americane. Intanto noi continuiamo a educare i più giovani al sogno di Gaza. Passo dopo passo lo stiamo già facendo. È un lavoro psicologico insieme all’influenza politica. Arriverà, molto prima di quello che la gran parte delle persone pensa». —