Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 17 Venerdì calendario

Le invenzioni di Testa per l’Italia del boom


Venezia. È l’Italia del Techetechetè, quella della naja, delle domeniche con i negozi chiusi, della Serie A senza stranieri, dei mercati e dell’Europa che non ci stavano sul collo (anche perché crescevamo tanto e ci indebitavamo poco), quella che è davanti a noi, che abbiamo una certa età (eufemismo), all’ingresso della mostra di Armando Testa (1917-1992) a Ca’ Pesaro a Venezia. È l’Italia che apparve come la rivelazione del dopoguerra, altro che coreani e cinesi di oggi, con i suoi prodotti made in Italy, dalla Lambretta alla macchina per il caffè Gaggia, dalle macchine per cucire Necchi a quelle per scrivere Olivetti. Furono come l’annuncio che un altro mondo era possibile, che il capitalismo poteva e sapeva farsi popolare, offrendo anche a chi non aveva molti soldi in tasca la possibilità di possedere oggetti belli, eleganti, in grado di migliorare la qualità della vita. La prova che l’Europa stava per conquistare l’accesso all’ american way of life, ma con un italian style. L’ottimismo di quell’Italia prese due strade: il baby boom demografico con le famiglie che dopo la tempesta della guerra riprendevano a credere nel futuro e a fare figli (la generazione dei nati tra il ’48 e il ’64 è stata la più numerosa della storia patria). La seconda via fu il consumo: i nostri padri si misero a spendere, magari a rate, ma si comprarono la lavatrice, un apparecchio tv e la Seicento.
Un ottimismo senza precedenti spinse tante aziende piccole e grandi, spesso fondate da coraggiosi self made men, a rischiare, a lanciare nuovi prodotti, ad affidare le loro campagne pubblicitarie ai migliori designer, inventando un “gusto” che poi avremo sfruttato per i decenni successivi e ancora oggi è il biglietto da visita del made in Italy. Si capisce dunque l’effetto nostalgia per quegli anni di grande creatività e dinamismo, dei Cinquanta e dei Sessanta, che ci hanno fatto conquistare il mondo, di cui le opere di Armando Testa ci fanno partecipi. Ecco allora quelle dedicate al vermuth della Carpano (1951), al cappello Borsalino (1954), ai pneumatici Pirelli (1954), agli abiti Facis (1955) che non costavano più di 30.000 lire. Anni che videro la nascita delle immagini e delle animazioni per la televisione, con personaggi, suoni e gesti che sono rimasti nella storia della pubblicità e della cultura internazionale: dal digestivo Antonetto (1960), alla celebre sfera rossa sospesa sopra la mezza sfera del Punt e Mes (1960); da Caballero e Carmencita per il caffè Paulista di Lavazza (1965), agli immaginifici abitanti del pianeta Papalla per i televisori Philco (1966); da Pippo, l’ippopotamo azzurro dei pannolini Lines (1966-1967), alle pubblicità per l’olio Sasso (1968) e per la birra Peroni (1968). Ma la mostra a Ca’ Pesaro non si ferma a quegli anni. Si tratta infatti di una grande monografica, (catalogo Silvana) a cura di Gemma De Angelis Testa, Tim Marlow ed Elisabetta Barisoni, che ricostruisce il percorso artistico di un protagonista della cultura visiva contemporanea, creatore di celebri icone entrate da anni nel nostro immaginario collettivo frutto di una pluralità di linguaggi espressivi sperimentati nel corso di una lunga carriera. Che è iniziata quando Testa ha appena vent’anni, nel 1937, vincendo un concorso nazionale destinato alla realizzazione di un cartellone pubblicitario per una casa di colori da stampa cui partecipano i più affermati grafici italiani. Fin da allora è affascinato dalle strutture architettoniche di Le Corbusier, dalle ricerche del Bauhaus, dalla sintesi di Mondrian e di Mies van der Rohe del quale fa suo il concetto secondo cui “nel meno c’è il più”. Su quel concetto – ha dichiarato Testa – “ho costruito una vita” e allora si spiega la sua predilezione per “i segni elementari della comunicazione visiva dell’uomo: la croce, il cerchio, la diagonale e il moltiplicato”. Esemplare, in proposito, la famosissima Sedia AT del 1990 che con la sua forma essenziale richiama la croce e suggerisce a Testa varie declinazioni sul tema. È così che nascono sculture e opere grafiche (la serie Segno, 1990) in cui il corpo di Cristo si fa struttura e viceversa. «Una simbiosi – precisa Gemma De Angelis Testa – assolutamente geniale tra significato e significante, tra contenitore e contenuto». Parallelamente alle campagne pubblicitarie, nella produzione di Testa ha largo spazio l’opera grafica dedicata alle immagini per la promozione di eventi sportivi, culturali o a sostegno di campagne sociali sulla salute, la fame nel mondo e i diritti umani (celebri gli interventi ideati per Amnesty International e la Croce Rossa). Proprio in questo ambito «Testa dimostra – rileva Barisoni – di percorrere con disinvoltura i territori della storia dell’arte, talvolta con maggiore libertà dovuta forse al fatto di non essere legato, in questi contesti, ad un prodotto e ad un target specifico di consumatore». Dunque nella vita di colui che Gillo Dorfles ha definito “visualizzatore globale” arte e pubblicità si mescolano («Sono convinto – ha confessato l’artista – che fra pittura e pubblicità debba esserci un’interazione totale») per dare luogo a quella bellezza del segno che è cifra distintiva del suo universo visivo.