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 2024  maggio 17 Venerdì calendario

Il Tesoro vuole vendere il 29% di Poste (in perdita)

La Cgil la definisce “una resa del governo ai poteri forti dell’alta finanza”, la Cisl parla di “svendita”. Presto i sindacati saranno ricevuti al Tesoro ed è in questo clima che il ministero di Giancarlo Giorgetti si prepara a (s)vendere a più riprese un pezzo di Poste italiane, dopo averlo già fatto con Montepaschi ed Eni. Il gigante delle lettere, ormai sempre più un colosso della finanza e delle assicurazioni, è il prossimo indiziato. Problema: i numeri mostrano che è un’operazione a perdere e basta vedere il precedente del governo Renzi nel 2015 per capirlo.
Breve riassunto. Mercoledì il Tesoro ha venduto con una “procedura accelerata di raccolta ordini”, cioè chiamando a raccolta i fondi, il 2,8% del capitale di Eni incassando poco meno di un miliardo e mezzo. La quota in mano al ministero scende al 2%, ma lo Stato resterà sopra la soglia del 30% grazie alla pubblica Cassa depositi e prestiti che controlla un altro 28,5%. Nei mesi scorsi, Giorgetti&C. hanno venduto in due tranche, e con lo stesso meccanismo, il 37% del capitale del Montepaschi per 1,6 miliardi. Nel Documento di economia e finanza, il governo ha messo a bilancio privatizzazioni per quasi un punto di Pil nel 2024-2026 per far calare il debito: in soldi sono 21 miliardi ma al momento siamo fermi a tre. Mercoledì la Commissione Ue ha detto di attendersi realisticamente circa 7 miliardi di incassi. Come si arriva a quel numero? Semplice, vendendo un pezzo di Poste.
A livello politico la decisione è stata già definita, nonostante nel 2018 Giorgia Meloni definì una “follia” la cessione di una quota di Poste ipotizzata dal governo Gentiloni (“è un presidio di legalità e di presenza dello Stato, specie nei piccoli Comuni”). Un decreto di Palazzo Chigi (Dpcm) autorizza il Tesoro a cedere fino al 29% del capitale, cioè l’intera quota che possiede (un altro 35% è in mano alla solita Cdp).
Ai corsi di Borsa attuali, quel pacchetto di azioni vale 4,6 miliardi. L’idea è di massimizzare gli incassi, sfruttando le finestre di mercato, anche cedendo una piccola quota del 2-3% alla volta. L’unico modo è farlo con le solite procedure accelerate ai grandi fondi per evitare di deprimere il valore in Borsa. Una quota dovrebbe poi passare da un’offerta pubblica di vendita allargata anche ai risparmiatori e ai dipendenti di Poste, o almeno così suggerisce il Dpcm. “Quello che il governo ha in mente è uno scambio perverso coi grandi fondi – spiega il segretario generale della Slc Cgil, Fabrizio Solari – L’affare lo fanno solo loro, un modo per rassicurare il mercato che deve poi comprare il nostro debito. L’esecutivo si fermi”. Guardando i numeri è difficile trovare un’altra spiegazione: cedere quote delle partecipate per ridurre il debito non ha senso perché l’operazione è in perdita.
Prendiamo Poste. Se il Tesoro dovesse incassare 5 miliardi dalla cessione del suo 29%, questo permetterebbe di risparmiare meno di 200 milioni sul minor debito da emettere. Questo dato, però, non considera i dividendi: quasi 1 miliardo quelli distribuiti da Poste ai suoi soci per il 2023, di cui 700 milioni allo Stato. Oggi le azioni Poste hanno un rendimento del 6,45%, contro il 3,57% che è il costo medio all’emissione del debito pubblico italiano. Al di là dei tecnicismi, significa che nel 2024 la perdita secca sarebbe di 144 milioni per il Tesoro, cifra che salirà se i dividendi di Poste dovessero crescere (come accade da quasi 10 anni).
Nel 2015, per dire, il governo Renzi cedette il 34% di Poste quotando l’azienda in Borsa. L’incasso fu di 3,3 miliardi. Così facendo, però, il Tesoro ha rinunciato a 1,7 miliardi di dividendi al netto dei risparmi sul debito (se si considera anche la mancata rivalutazione delle azioni, la perdita sale a 4,8 miliardi). Certo, si può obiettare che senza la quotazione in Borsa Poste non avrebbe distribuito così tanti dividendi (5,8 miliardi dal 2015) ma la cifre rendono comunque l’idea.
Il governo, insomma, non sta vendendo ai fondi un pezzo di capitale, ma il potere di spremere società che hanno un ingente flusso di cassa: trasformarlo in dividendi è solo questione di volontà. Quel che potrà succedere a Poste, dove il servizio universale (corrispondenza e pacchi) è in perdita e i servizi finanziari in crescita, è facile da intuire. Il caso di Autostrade per l’Italia è lì a ricordarcelo.