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 2024  maggio 17 Venerdì calendario

Il nuovo disco di Billie Eilish

Inizia con un sussurro, un soffio scuro e denso di vita, ma attenzione, è il canto di una giovane maga incantatrice. Il suo nuovo attesissimo disco, Hit me hard and soft, già nel titolo rivendica il diritto di professarsi incoerente, imprevedibile. Durezza e morbidità, tanto per cominciare, e come se non bastasse propone anche un’audace immagine utile a definire in sintesi il suo progetto: è come lasciarsi andare in caduta libera al rallentatore, per 45 minuti, al buio, ma in totale sicurezza. Chi altri al mondo di questi tempi si presenterebbe così? Lei, solo lei, la ragazza terribile, Billie Eilish, l’anomalia, l’imprevista alterazione della bolla che però ha un successo planetario e si porta addosso un carico grande: donna, giovane, con la sua aria dolente e sofferta, simbolo di un mondo musicale e quindi di una generazione che resiste alle cascate di superficialità che inondano il mercato.

Esprime liberamente disagio, insicurezza, va contro ogni facile equazione ma ha già due Oscar e nove Grammy all’attivo, vanta record di ogni tipo, numeri da capogiro, molta, tanta roba per essere nata solo pochi anni fa, nel 2001, tre mesi dopo la distruzione delle Torri Gemelle, con un lungo nome che si porta appresso alcuni indizi di vocazione: Billie Eilish Pirate Baird O’Connell, dove Pirate sta esattamente per “pirata”, secondo la volontà del fratello Finneas, suo alter ego in ogni fase del lavoro, che quando nacque aveva 4 anni ed era appassionato di pirati.

Hit me hard and soft, sembrerebbe il disco della vita, sincero, frutto di ricerca personale, «Sono molto orgogliosa…» dice, «racconta un periodo di transizione, di crescita, cercando me stessa, riflette in modo accurato quello che sono oggi», e usa toni di sorprendente maturità, le canzoni riescono a essere soavi e disturbanti allo stesso tempo, si percepisce la voglia di superare il successo clamoroso di What I was made for che le ha regalato il suo secondo Oscar ma la stava chiudendo nel magico recinto di Barbie. Ricordiamo quel senso di sospensione ipnotica che ha creato quando la canzone l’ha cantata alla cerimonia degli Oscar, ma lei è tanto di più e questa ricchezza emerge pienamente nel viaggio compiuto dal disco, un volo di dieci pezzi in cui si permette un intro di voce e chitarra in Wildflower, alla maniera antica, si concede dilatate e visionarie digressioni, altrove riesce a trascinarci in un gorgo sognante e spiritato, come se continuasse a esplorare quel suo mondo di ragni e oscurità dal quale era partita con When we all fall asleep where do we go? pubblicato a 17 anni.

(reuters)
Del resto è lei a dire «se non soffro in qualche modo non mi sento a mio agio con quello che sto facendo» e continua a raccontare la sua vita fatta di dolore, affetta da ipermobilità, da sindrome di Tourette da quando ha 11 anni, bloccata nei suoi sogni di danza a 13. Tra i pezzi forti dell’album ci sono The greatest («il cuore di questo progetto, il centro da cui è partito tutto»), Lunch, il primo singolo estratto dall’album, Birds of a feather, L’amour de ma vie, ma al di là dei singoli pezzi si rimane avvinti dalla bellezza persuasiva di questa voce insolita che sbroglia matasse emotive, chiarisce, cerca verità in un mondo di finzioni. Le hanno chiesto se c’era una emoticon che potesse riassumere il senso del disco e lei ha risposto: sì, una porta. Naturalmente da aprire.