La Stampa, 16 maggio 2024
Intervista con lo scrittore cinese Yu Hua
Non vede margini di miglioramento nei rapporti fra Pechino e Washington perché «agli Stati Uniti non può andare bene che la Cina diventi ancora più forte», mentre la Cina «non vuole che nessuno, non solo l’America, sia più forte di lei». Crede che l’attuale crisi economica cinese sia fisiologica «dopo trent’anni di sviluppo vertiginoso». E spera che Trump non torni alla Casa Bianca «perché questo comprometterebbe la speranza di una maggiore cooperazione fra Cina ed Europa». Yu Hua, 64 anni, fra i maggiori scrittori cinesi contemporanei, grande indagatore del Secolo breve cinese, alterna risposte e boccate di fumo seduto nel dehors della Fondazione Feltrinelli di Milano. Sul tavolino ha una tazza di tè verde, un pacchetto di sigarette e un paio di occhiali da sole a goccia. È appena tornato da una passeggiata nella Chinatown di via Paolo Sarpi («È molto più in ordine di come me la ricordavo»), dopo due giorni trascorsi fra il Salone del Libro di Torino e una conferenza con il direttore dell’Istituto Confucio. A colpirlo, durante il suo breve tour in Italia, è stato soprattutto il fatto che il suo pubblico è formato anche da ragazzi cinesi di seconda generazione, e da studenti universitari cinesi in Italia, che acquistano i suoi volumi per regalarli ai loro coetanei occidentali.Il suo ultimo lavoro, La città che non c’è, è ambientato nella Cina del primo Novecento. Perché una storia del genere attrae anche i ventenni di oggi?«I primi decenni del secolo scorso per la Cina sono stati un periodo di crisi così grande che c’è stato il crollo dell’ultima dinastia imperiale. È stato un periodo di disordini, ma anche di grande apertura: sono arrivati il pensiero occidentale e quello giapponese, la cultura scientifica e anche tante nuove riflessioni autonome. È con questo melting pot che è attecchita e ha preso forma anche l’ideologia comunista. Senza quegli anni la Cina di oggi non sarebbe quella che è. Da scrittore lo ritengo un momento cruciale».E quello che state vivendo oggi, che momento è?«Oggi non parlerei di crisi. Il problema più grosso è che c’è un arresto dell’economia. Però le crisi economiche sono un fenomeno naturale. La Cina ha avuto una crescita economica vertiginosa da trent’anni a questa parte e oggi non poteva che intervenire una fase d’arresto. La vera sfida che stiamo affrontando, anche a livello governativo, è quella di trovare un nuovo modello si sviluppo. Ci sono aree, come l’industria delle batterie al silicio o delle auto elettriche, in cui lo stiamo già facendo e siamo superpotenze mondiali. Dobbiamo fare lo stesso in altri settori».Il presidente Xi Jinping è la persona giusta per guidare questo processo?«Figure come quelle di Mao Tse-tung, Deng Xiaoping e Xi Jinping sono necessità storiche. In tutta la storia cinese c’è un enorme rispetto per i leader carismatici. Fin dall’inizio dell’impero in Cina può cambiare tutto, ad eccezione del fatto di avere un governo potente. È sempre stato così, salvo nei momenti di rottura come quello descritto nel mio ultimo libro. Queste fasi servono per poi ripristinare un potere ancora più forte».Uno dei racconti che l’hanno resa celebre si intitola A diciott’anni sono andato via di casa. Da giovane lasciò il lavoro di dentista che suo padre aveva scelto per lei per seguire la sua vocazione. Come è oggi in Cina il rapporto fra generazioni?«Uno degli aspetti più dolorosi correlati alla crisi economica attuale è l’alto tasso di disoccupazione dei giovani istruiti, anche di quelli che hanno una laurea o addirittura un dottorato. Teste che sarebbero cruciali ma che faticano a trovare spazi. Oggi è un problema, ma quando questi giovani verranno assorbiti dal mercato del lavoro, avremo una risalita inimmaginabile dell’economia».Da anni viaggia fra il suo Paese, gli Stati Uniti e l’Europa. In che modo ha visto evolvere i rapporti fra Oriente e Occidente?«Il fulcro del mondo restano gli Stati Uniti. Tutto il resto ruota attorno al loro atteggiamento. A seconda di come si comportano c’è un impatto diverso sui rapporti fra Stati Uniti e Cina, e fra Cina e Occidente. Dal mio punto di vista non mi pare che, nel futuro prossimo, i rapporti fra Pechino e Washington vadano verso un miglioramento. Agli Stati Uniti non può andare bene che la Cina diventi ancora più forte, mentre la Cina non vuole che nessuno, non solo l’America, sia più forte di lei. Io immagino piuttosto che ci siano possibilità più positive per i rapporti fra Cina e Europa. Cero, se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca questa speranza crollerebbe».Lei, da figlio di un medico e di un’infermiera, è letteralmente cresciuto in un ospedale. Ha scritto che da bambino andava a prendere il fresco nelle sale dell’obitorio. Il Covid 19 ha cambiato il rapporto fra la nostra epoca e la morte?«All’inizio della pandemia le misure molto restrittive adottate dal mio Paese hanno contenuto i decessi. Poi, fra il dicembre del 2022 e il gennaio del 2023, tutto è andato fuori controllo causando un’ecatombe soprattutto di persone anziane. Il governo cercava di non far circolare le immagini dei cadaveri negli obitori, ma queste hanno comunque invaso la rete e i social. Prima per una persona sana la morte era qualcosa di remoto, con il Covid ci è stata sbattuta in faccia e la lontananza è scomparsa».Cosa pensa dell’intelligenza artificiale? Da scrittore la preoccupa?«Sono curioso. E ancora di più sono curioso di vedere fin dove può arrivare. Quando mi chiedono se da scrittore ho paura di essere sostituito, rispondo che questo timore proprio non mi tocca. Ho già superato i 60 anni e scrivo da quaranta. Posso semplicemente smettere di scrivere. Certo, se fossi un giovane scrittore, forse sarei più preoccupato».