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 2024  maggio 16 Giovedì calendario

Sul dress code

Ogni volta che ci si imbatte in un dress code è inevitabile pensare quanto sia ottusa e soffocante l’intenzione di uniformare (mettere in uniforme) l’umanità, che è per definizione varia e indomabile. E più il dress code è minuzioso e si dilunga su dettagli anche trascurabili (vedi quello dei vigili urbani di Roma, che dà indicazioni anche sul colore dei capelli e la lunghezza delle basette), più viene voglia di ripudiarlo, e farsi due risate. Ma devo confessarvi una cosa. Posto che l’idea stessa del dress code rivela una volontà ordinatrice, tanto più patetica quanto più evidente è il pittoresco trionfo del disordine, mi capita sempre più spesso di comprendere le intenzioni di chi lo propone; e quasi di solidarizzare con lui. Nell’epoca della massima espansione della libertà individuale, in tutte le sue manifestazioni, non sempre confortanti, sapere che qualcuno tenta disperatamente, spesso goffamente, nonché vanamente, di mettere un argine all’esuberanza dell’io, un poco mi rassicura. È come cercare di restituire una forma sociale riconoscibile a una società che delle forme non sa più che farsene. Nella società dell’io, che rilevanza può avere qualunque incursione del “noi”? Non c’è dubbio che ci sia qualcosa di reazionario nella pretesa di rimettere in riga qualcosa o qualcuno quando oramai è il “rompete le righe” ad avere stravinto. Ma il dubbio che voglio condividere con voi è questo: non ci sarà anche qualcosa di rivoluzionario, nella convinzione che le scelte individuali non siano sempre insindacabili? Ogni dress code riconduce l’immagine di ciascuno a un obbligo collettivo. E devo proprio dirlo fuori dai denti: “obbligo collettivo” è un’espressione nei confronti della quale provo molta indulgenza.