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 2024  maggio 16 Giovedì calendario

La Milano di Scerbanenco resiste tra il bar e la Stazione

È la letteratura a fare i luoghi mi disse qualcuno che si intendeva dell’una e degli altri, Carlo Fruttero. Me lo disse nel suo salotto a due passi da Porta Nuova sotto i portici, nella penombra di un salotto che come tutti i salotti di Torino sembrano avere i portici anche loro. Per questo tra uno scrittore e una città è decisiva la chimica, come negli amori.
Quello tra Giorgio Scerbanenco a Milano fu un colpo di fulmine per entrambi, l’incontro fatale tra uno scrittore senza patria e una metropoli in cerca d’autore. Questa affinità elettiva la racconta con passione, puntiglio e orgogliosa parzialità Alessandro Trocino in Scerbanenco a Milano (Paesi Edizioni). Un reportage doppio, nella cronaca e nell’immaginario, che è una guida ai luoghi oscuri di Milano, un Fuorisalone delle ombre, e allo stesso tempo un legal thriller teso a ribaltare un caso di clamorosa malagiustizia letteraria, mostrare come sia stata sottovalutata l’opera del padre del noir italiano.
È incredibile, dice Trocino, quanto Scerbanenco abbia fatto per Milano, e quanto poco Milano gli abbia restituito. Non una via, nemmeno una targa. Eppure, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Nato a Kiev nella Russia zarista, Scerba arriva a Milano nel 1927 insieme alla madre, l’anno dopo si sposa e va a vivere al 12 di via Orti quando in via Orti c’erano gli orti davvero, ma era anche famosa per la presenza di una variopinta malavita, ladri e contrabbandieri, rapinatori, ricettatori, falsari. Ditemi voi se questo non è colpo di fulmine: Scerbanenco trova praticamente a domicilio i soggetti nella quadrilogia di Duca Lamberti, non deve nemmeno chiamare Deliveroo. Medico radiato dall’Ordine che diventa investigatore privato, prete spretato che si consacra alla giustizia, Duca è più di un personaggio, è un archetipo.
Scerbanenco fonda i suoi gialli a forti tinte sulle pietre, le notti, le nebbie e lo smog della Milano anni Sessanta. E quindi, dove vogliamo metterla questa targa? In piazza Leonardo da Vinci, dove, scrive Trocino, “Duca ci osserva dal primo piano del suo ufficio e fuma Nazionali semplici, neppure esportazione.”? Oppure nelle vie tutte insospettabilmente anonime dell’adiacente Città studi, nei bar dove Duca va a farsi un gingerino? Nella Stazione Centrale, altra sicura fonte di ispirazione? Nella “oscura vastità sahariana” di piazza della Repubblica, l’ultima residenza? Oppure vogliamo spostarci in centro, nei faraonici cinema di Corso Vittorio Emanuele, ora sfrattati dai concept store? In via Mazzini dove le passeggiatrici di Venere Privata ancheggiavano davanti alla cartoleria Kores, quella della dattilografa al neon che batteva instancabilmente i tasti della macchina da scrivere sulla facciata di Palazzo Carminati, quando Piazza del Duomo cercava di somigliare a Piccadilly Circus?
Noi votiamo il Bar Basso, dove ancora oggi si serve negli inconfondibili bicchieroni ghiacciati il Negroni sbagliato, inventato qui nel 1968 (e dire che anche il Negroni è un Milano-Torino sbagliato: per fortuna che ogni tanto ci sbagliamo). Votiamo il Bar Basso per rendere onore a uno dei pochi luoghi sopravvissuti della Milano di Scerbanenco, una metropoli in subbuglio un attimo prima della calata dei nonluoghi e delle location, la mutazione per cui tutte le metropoli si assomigliano, e non assomigliano a niente. Oggi in via Orti ci sono solo ristoranti alla moda, nemmeno un ladruncolo, oggi sono tutti giallisti, i gialli che andavano negli espositori delle edicole insieme all’orario dei treni sbancano nelle librerie.
Eppure, come ci ricorda Alessandro Trocino, mezzo secolo fa, quando gli scrittori di Bassano del Grappa o di Gallipoli dovevano prendersi un truce pseudonimo anglofono, e perfino il Tenente Sheridan della Tv doveva fingere di essere a Londra, il giallo italiano d’autore non esisteva proprio, prima che Giorgio Scerbanenco se lo inventasse.