Corriere della Sera, 16 maggio 2024
La mia epopea americana
CANNES Cosa ci fa un italiano nell’epopea western? Roberto Minervini ha lasciato 24 anni fa Monte Urano, il paesino delle Marche dove è nato, trasferendosi («per amore») negli Stati Uniti. Fa un cinema indipendente, meditativo e minimalista, con un taglio documentaristico. Ora però preme il grilletto e spara: «È la prima volta che giro un film per un circuito normale».
Sbarca al Festival con I dannati: da oggi nelle sale, budget limitato, 2 milioni e mezzo. È ospite a Un certain regard con una storia che più americana non potrebbe essere, al tempo della guerra di Secessione. Il regista se ne sta incollato a una pattuglia di volontari nordisti che nel 1862 perlustrano e presidiano una terra non mappata, brulicante di sudisti.
Un pacifista come lei in mezzo a una sparatoria.
«Volevo andare oltre la retorica della guerra, ho cercato di riscrivere questo genere, col metodo del cinema del reale ma in un ambito di finzione; avevo un rapporto dissonante, per la sovrastruttura morale e muscolare che guarda alla giusta causa, dove la vittoria trascende i morti».
Sembra un western esistenzialista con un tocco alla Terrence Malick.
«Per le atmosfere e per l’elemento spirituale e sovrannaturale. I nordisti parlano di Dio, si chiedono dove stanno andando, sono uomini, non soldati, contadini che non si aspettano di trovarsi in uno scontro ma hanno bisogno di una busta paga. La guerra che diventa condizione esistenziale. Altro riferimento Il deserto dei tartari di Dino Buzzati».
Il cast?
«Sono andato al Consiglio comunale della capitale del Montana, e ho detto: siete liberi di recitare e andar via. Ai vigili del fuoco che smontavano il set ho detto: mettetevi la divisa e recitate con gli altri. Poi ci sono attori e cineasti che ho avuto in passato. Tutto è frutto di improvvisazione e di tante ricerche con gente che mastica la Storia».
Sono stato operaio, cameriere, professore, informatico,agente immobiliare e animatore nei campeggi Da piccolo volevo fare il chieri-chetto:
me lo proibì mio nonno che aveva
il mito
di Stalin
Le armi emettono uno strano suono.
«Nella mia battaglia il suono si distorce, cambia e diventa contemporaneo. È il suono di tutte le guerre, non si identifica in un periodo, si espande, richiama dai moschetti ai fucili AR-15 semiautomatici».
I nordisti dicono: «Siamo tutti americani».
«Oggi negli Usa ci sono paralleli con la guerra civile. Penso alla polarizzazione dominante. Non volevo che mio figlio crescesse a Houston, nel cristianesimo evangelico così estremo. Ci siamo trasferiti a New York. La gente è convinta che alle elezioni presidenziali vincerà Trump. La Corte suprema ormai è un organo politico di parte e il processo a Trump si concluderà con un nulla di fatto. Un’America ancorata a un passato preoccupa tanta gente. Uno scenario potenzialmente apocalittico: il ritorno alla pena di morte a livello federale, alla suddivisione binaria tra i generi...».
In un suo film un agente uccide un ragazzo di colore.
«Che fare quando il mondo è in fiamme? nasce da un episodio vero avvenuto nel 2018. Se mi chiede cosa si dice in America di Matteo Falcinelli, il ragazzo italiano legato e picchiato dagli agenti, rispondo che la stampa nazionale non ne parla. Il sindacato di polizia varia da Stato a Stato. Quel fatto è avvenuto a Miami, dove i poliziotti possono intervenire sulla base del semplice sospetto. A San Francisco non sarebbe andata così».
Le sue origini sono umili.
«Ho fatto mille lavori, operaio, cameriere, agente immobiliare, animatore nei campeggi, professore, informatico. Da piccolo volevo fare il chierichetto. Me lo proibì mio nonno, che lavorava come un pazzo in un calzaturificio, il chiodo in bocca e la foto di Stalin alle spalle. Il lavoro come sacrificio l’ho capito grazie al cinema».