Corriere della Sera, 16 maggio 2024
Intervista a Pietruccio Montalbetti
Mai stato in California?
«No, mai. Cosa ci vado a fare?».
E l’isola di Wight?
«Non ho visto nemmeno quella: sono altri i posti che mi incuriosiscono».
Pietro Montalbetti (detto Pietruccio) è il leader dei Dik Dik, il gruppo che tra i suoi successi più clamorosi ha due brani come Sognando la California e L’isola di Wight. Vale il teorema Salgari, cantare cose mai viste. Eppure lui è uno che ha girato mezzo mondo, da Capo Horn al Sahara con i tuareg, dall’Himalaya all’Amazzonia. «Il mio sogno era fare l’esploratore, non il musicista, ma sull’onda delle band che nascevano a metà anni Sessanta con un gruppo di amici abbiamo messo su un complessino». Un «complessino» che con Giancarlo Sbriziolo (detto Lallo), Gaetano Rubino e Mauro Gazzola è ancora qui.
La scuola?
«Sono stato bocciato in terza elementare».
Come si fa a farsi bocciare in terza elementare?
«Sono sempre stato un sognatore. A scuola ero sempre distratto e il prof Capozzi mi vedeva per aria e mi riprendeva in continuazione: alla fine mi ha bocciato perché ero disattento. In quinta elementare ho rischiato di nuovo, ero sempre da un’altra parte. Sono perito elettrotecnico ma so a mala pena cambiare una lampadina, preferivo leggere i libri in biblioteca».
Come nacque il «complessino»?
«Lallo lo conosco dai tempi dell’asilo, canta bene, ma ha un caratteraccio. Io non mi arrabbio mai, lui invece è iracondo. Con lui e Pepe (Erminio Salvaderi, morto 4 anni fa) abbiamo formato il primo trio. All’inizio facevamo canzoni di merda».
Lei intanto lavorava.
«Ho fatto il muratore, il facchino, ma trovavo un posto di lavoro e mi licenziavano subito. Sono uno che ha le sue regole, ero uno che protestava, mi sentivo costretto».
Avete ottenuto un provino grazie alla raccomandazione di Montini, che poi divenne Papa Paolo VI.
«Mio fratello era assunto all’arcivescovado come assistente del segretario dell’allora monsignor Montini, la Ricordi procurava gli organi da chiesa a tutta la curia. Armeggiando un po’ sono riuscito ad avere una lettera che ci segnalava. Montini scrisse: voglio raccomandare questi ragazzi, sono dei bravi parrocchiani».
Quando conobbe Lucio Battisti?
«A metà anni Sessanta, al secondo provino per la Ricordi. Arrivo per primo e sento il suono di un pianoforte, vedo questo ragazzo con una bella faccia e tanti ricci. È nato subito un feeling durato tutta la vita. Mi fece subito sentire alcune sue canzoni, tre o quattro, e nella mia testa pensai: poveraccio, questo finisce a fare il parcheggiatore... Non avevo capito niente. Certo erano molto diverse da quelle che avrebbe fatto dopo, però cantava già in una maniera particolare. Una delle prime canzoni che abbiamo suonato era sua, era una delle meno peggio».
All’inizio era più famoso lei di lui.
«Una volta l’ho imposto a un Cantagiro per fare il nostro autista per fargli guadagnare un po’ di soldi».
Perché Dik Dik?
«Volevo un nome con delle consonanti insolite, iniziai a sfogliare un vocabolario di inglese e trovai la parola Dik Dik, il nome dell’antilope africana. Con un tecnigrafo feci il logo che usiamo ancora adesso».
Primo successo. «Sognando la California».
«Nessuno di noi era compMaiositore, in quel periodo come tutti facevamo cover, sentii California Dreamin’ dei The Mamas & the Papas e mi dissi subito: questo è un successo. Mogol fece il testo in italiano, scrisse una cosa che chiunque avrebbe saputo fare».
Sembra di capire che non le piaccia Mogol...
«Se non ci fosse stato Battisti sarebbe stato uno dei tanti, mentre Battisti era talmente bravo che sarebbe comunque diventato un grande anche senza di lui. Mogol umanamente non mi è mai piaciuto, non ha carisma. Ci litigai, andavo spesso alla Ricordi, tre volte alla settimana per sei mesi e lui ogni volta mi chiedeva come mi chiamavo. Mi disse: ma io sono fatto così. Gli risposi, se sei così, sei un cretino».
Intanto eravate arrivati al numero 1 in classifica.
«I genitori del Pepe e del Lallo li frenavano, loro facevano l’università e i genitori pensavano che non fosse un lavoro fare il musicista. Abbiamo deciso di fare un anno di prova e siamo ancora qua».
Nel tempo libero ha fatto l’esploratore come voleva da bambino. Ha viaggiato in solitaria, accompagnato solo con una o due guide locali, in posti remoti e poco battuti, sulle tracce di tribù a rischio di estinzione.
«Non soffro di solitudine, la solitudine ti dà libertà. Ho sempre fatto un viaggio all’anno, a gennaio. Agli altri del gruppo dicevo: in quel mese non contate su di me. “Dove vai?”, mi chiedevano. Non lo so».
Cosa ci vuole per viaggiare così?
«Curiosità e spirito di adattamento. Ho dormito con gli scarafaggi e in mezzo ai topi, una mattina mi sono svegliato con un Boa constrictor sopra la testa».
Primo viaggio?
«Nello Yucatan a fine anni 60. Ho attraversato la giungla con il machete in mano, sentivo strani ruggiti. Oggi sembra Disneyland».
Quante popolazioni indigene ha incontrato?
«Un ventina, tra cui anche gli Aucas: alcuni di loro hanno sei dita alle mani e ai piedi».
Altre esperienze?
«Sono stati tra gli Shuar, quelli che tagliano le teste e le rimpiccioliscono, mi hanno fatto vedere come si fa. Ho visto una donna che allattava un bambino e un cucciolo di leopardo che aveva perso la mamma. Sono andato a caccia con gli indios e abbiamo preso una scimmia».
L’ha mangiata?
«Certo, la carne è carne. Il coccodrillo sembra pollo».
Altri cibi insoliti?
«Nell’alto Orinoco ho imparato a mangiare i bruchi delle piante: sono proteine, basta solo togliergli la testa. Ho mangiato anche i ragni, quelli urticanti, ma se li fai cuocere sono come le granceole. Mai avuto nessun problema con il cibo, gli indios mi davano una ciotola e io mangiavo».
Gite in montagna?
«Ho attraversato la catena dell’Himalaya con due sherpa. A un certo punto ho visto una persona con un carrettino dei gelato, ma era un’allucinazione. E ho scalato senza ossigeno i 7.000 metri dell’Aconcagua, in Argentina, a 70 anni».
L’igiene?
«Non è che ci bado tanto, mi lavo con i vestiti in un fiume e via. Ma se pensi a queste cose non vai da nessuna parte».
I piranha?
«Non è come nei film, mica facile trovarli».
Come la accolgono queste tribù?
«Bene. Io porto sempre dei regali, caramelle e palloncini per i bambini. Stoffe e perline, machete e coltelli per gli adulti, a loro fa comodo».
Il cellulare?
«A che serve? Ho iniziato che non esistevano, ora non te ne fai niente: senza la corrente è inutile».
Si è mai perso?
«Oh, tante volte».