il Giornale, 16 maggio 2024
I peggiori anni della nostra vita - 6
Nel mese di luglio del 2002, a un anno dalla morte, l’Università Statale di Milano organizzò un convegno sul Montanelli storico. Fui invitato fra i relatori perché di Montanelli avevo curato gli ultimi due libri, uno dei quali era la riedizione de Il generale Della Rovere, e perché con Montanelli avevo fatto la tesi di laurea sulla guerra civile spagnola. Quando ricordai quell’episodio delle nozze fra Giannalisa Feltrinelli e Luigi Barzini junior, con successivo arresto di quest’ultimo, venni duramente contestato da alcuni docenti di storia. O meglio venne – per interposta persona – contestato Montanelli, che quell’episodio aveva raccontato. «Così si banalizza il fascismo! Montanelli dava una versione edulcorata della dittatura! Non si scrive così la storia!».
Mi parve di essere tornato proprio a quegli anni di ideologia cieca, quando a Montanelli davano del fascista. Quegli anni del caso Feltrinelli, appunto.
Giangiacomo Feltrinelli faceva l’editore ed era un genio. Fu lui, solo per dirne una, a portare in Italia Il Dottor Zivago. La casa editrice Feltrinelli è opera sua e di sua moglie Inge.
Dopo la strage di piazza Fontana, Giangiacomo si convinse che in Italia si stesse preparando un colpo di Stato. Un abbaglio? Può darsi di no. Le bombe c’erano, e c’erano anche le tentazioni golpiste da parte di pezzi dell’Esercito, dei servizi segreti e della politica. Ma la via che Feltrinelli scelse per far fronte al pericolo fu come minimo bizzarra. Lasciò la guida della casa editrice, sparì dalla circolazione e si diede alla clandestinità con il nome di battaglia di Osvaldo, come se si fosse negli anni della guerra partigiana. Benché non indagato per alcun reato, fece falsificare i suoi documenti, fondò i Gap (Gruppi di azione partigiana, una delle prime formazioni armate degli anni di piombo) e si diede alla macchia.
La definizione di «miliardario che gioca a fare il guerrigliero», che gli fu affibbiata allora, è ingenerosa come è sempre ingeneroso il maramaldeggiar sui vinti. Incosciente o coraggioso che fosse, Feltrinelli aveva scelto di rischiare la vita. Ma certo aveva preso una strada sbagliata. Sbagliatissima.
Lo trovarono morto il 14 marzo del 1972 a Segrate, devastato dall’esplosivo con cui voleva far saltare un traliccio dell’alta tensione. Un contadino, Luigi Stringhetti, vide il corpo e chiamò i carabinieri. Fu però un poliziotto, guardando la carta di identità intestata a un inesistente Vincenzo Maggioni, ad avere il sospetto: «Mettete un paio di baffi su quella foto e vedrete Feltrinelli», disse. Quel poliziotto era Luigi Calabresi.
Visto quello che era venuto fuori per piazza Fontana, nessuno volle credere alla versione ufficiale. Per tutta la controinformazione, che poi ormai coincideva con l’informazione, Feltrinelli non stava compiendo nessun attentato e non era saltato in aria per sbaglio: era stato ammazzato. Dalla polizia, naturalmente. Il 28 marzo, ai funerali, migliaia di persone seguirono il feretro gridando «Compagno Feltrinelli sarai vendicato/ dalla giustizia del proletariato». La tesi dell’omicidio circolò sui giornali per anni. Ci vollero Renato Curcio e gli altri brigatisti, tra cui i compagni dei Gap, per confermare, in un’aula di giustizia, che Feltrinelli era davvero uno dei loro, e che era morto in una sorta di incidente sul lavoro. Anche il figlio Carlo, oggi alla guida della casa editrice, dice di credere, pur senza avere certezze, alla versione che diede allora la polizia.
La polizia, appunto. Quel poliziotto, quel commissario che aveva riconosciuto Feltrinelli nella foto senza baffi di Vincenzo Maggioni, non sarebbe sopravvissuto a lungo. Luigi Calabresi venne ammazzato la mattina del 17 maggio 1972 in via Francesco Cherubini a Milano, sotto casa, mentre stava salendo sulla sua Cinquecento. Gli spararono alle spalle. Era senza scorta.
Senza scorta benché fosse da tre anni nel mirino degli estremisti, specialmente quelli di Lotta Continua, i quali pubblicavano a più riprese, sul loro giornale, le fotografie e l’indirizzo della casa di Calabresi, e la mappa dei percorsi che il commissario seguiva per andare in ufficio. Estremisti tuttavia non isolati, ma spalleggiati, almeno moralmente, da molti giornalisti e da ben ottocento intellettuali italiani – il fior fiore della cultura di allora – che firmarono un documento, pubblicato da L’Espresso, in cui si definiva Calabresi un commissario assassino, responsabile della morte di Pinelli.
Pinelli, Giuseppe Pinelli, ferroviere, responsabile del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a Milano. Pinelli. L’uomo che alle 23,57 del 15 dicembre del 1969 era precipitato dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, al quarto piano della questura in via Fatebenefratelli. Pinelli che era stato prelevato da Calabresi medesimo per essere interrogato come testimone sulla strage di Piazza Fontana. Pinelli che aveva buttato fuori Valpreda dal suo circolo perché diceva che era una testa calda. Pinelli che «secondo la versione ufficiale», appunto, si suicidò, disperato dopo che Calabresi gli aveva fatto credere che Valpreda aveva confessato. Pinelli che era diventato il simbolo della Strage di Stato.
Come era morto Pinelli? Suicida, per la questura. Ucciso dalla polizia come Feltrinelli, per la controinformazione, la quale come detto a quei tempi influenzava la gran parte dei giornali. A causa di un malore che lo fece precipitare dalla finestra, per la sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio arrivata nel 1975, quando ormai Calabresi era stato ammazzato.
E certo che, quale che sia la verità, in questura era successo qualcosa di molto grave: un testimone, di cui la polizia avrebbe dovuto avere cura, era morto. E certo che di bugie ne erano già state dette, nelle versioni ufficiali.
Ma Calabresi?
Nel 2012, in un cinema di Roma, andai all’anteprima per i giornalisti di Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana su piazza Fontana. Alla fine della proiezione, invece del consueto applauso, in sala cadde il gelo. Luigi Calabresi, interpretato da Valerio Mastandrea, usciva dal film come persona integerrima, sempre alla ricerca della verità: un giovane commissario schiacciato da una cosa troppo grande e troppo oscura. I miei colleghi presenti all’anteprima non avevano gradito. «Lo hai dipinto come un eroe», disse una giornalista a Giordana. Il quale replicò così: «Io allora militavo nell’estrema sinistra, sono stato fermato più volte da Calabresi, e posso assicurare che era una persona correttissima». Parole che mi avevano fatto ricordare quelle che mi aveva detto, due anni prima, Mario Capanna, poco dopo che avevamo partecipato alla trasmissione di Lilli Gruber: «Calabresi», mi assicurò il leader del Movimento Studentesco, «non ha mai picchiato né fatto picchiare nessuno. Era uno che cercava di capire le nostre ragioni. Si informava, leggeva i nostri stessi libri».
Anche il delitto Calabresi, così come piazza Fontana, segnò una svolta. Il «commissario finestra», come lo chiamava Dario Fo, è stato la prima vittima della lotta armata degli anni di piombo. E poi era un poliziotto. Del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’omicidio, ho un ricordo nitido. Ero appena arrivato a casa da scuola. Entrò mio padre con il Corriere della Sera in mano, lo lanciò sul mobile all’ingresso e disse: «A che punto siamo arrivati. Uccidere un poliziotto».
Qualcuno ha detto che la strage di piazza Fontana non fece diciassette morti ma diciannove, perché vanno aggiunti i nomi di Pinelli e di Calabresi.
(6 – continua)