la Repubblica, 15 maggio 2024
Don Giuseppe Forlai, l’eremita urbano
La difficoltà maggiore è il silenzio. Quello dentro, perché dalla finestra i rumori arrivano: il vibrare del tram, la sirena dell’ambulanza, il chiacchiericcio della gente che passeggia sul marciapiede di sotto. “È il silenzio più che la solitudine, perché io non mi sono mai sentito solo, Dio è presente”, dice don Giuseppe Forlai. “Il silenzio fa emergere tutti i dolori, da cui solitamente hai mille uscite di sicurezza. Qui le porte antipanico non ci sono. Te la vedi con te stesso senza alibi, non puoi distrarti, non te la puoi raccontare. Sei condannato all’autenticità”.
A Roma come nel deserto
Il sacerdote, 52 anni, è un eremita urbano, l’unico di Roma. In passato ce ne sono stati: nel Settecento alcuni eremiti abitavano sotto gli archi del penultimo tamburo del Colosseo, tra di loro san Benedetto Giuseppe Labre, patrono dei senza fissa dimora. Le due cose, l’eremitismo e la metropoli, possono sembrare in contraddizione ma non lo sono. I primi monaci andavano nel deserto, nel terzo secolo, a imitazione di Gesù che vi trascorse 40 giorni di combattimento spirituale. “Il deserto era il luogo in cui incontrare te stesso, Dio e il male che c’è in te”, spiega il sacerdote. “Il deserto è il luogo delle tentazioni e la città, da questo punto di vista, non è da meno”.
Le paure sono come un cane
Il sacerdote non usa i social, non ha una televisione, non va al cinema e non entra neanche nei bar. Vive da solo, si alza ogni giorno ben prima dell’alba, attende la luce del sole pregando i salmi, trascorre le giornate nel suo eremo, un piccolo appartamento di due stanze e una cappella, tra preghiera, studio e scrittura (autore di alcuni bestsellers spirituali, è in uscita con la San Paolo il libro “La preghiera come contemplazione"), celebra messa nel pomeriggio, cena verso le 18.30 e alle 20 recita la preghiera di compieta che conclude la giornata. Due giorni a settimana fa una lunga passeggiata, sempre da solo, “rischia di essere una vita sedentaria, bisogna muoversi un po’”. I primi mesi, racconta, “sono stati un inferno”. Il momento più difficile, ancora oggi, è l’ora dei pasti: “Il bambino che è in te si ribella a mangiare da solo, devi fare il genitore di te stesso”. Le paure, a vivere da soli, sono il pane quotidiano: “Qua si impara a vivere con le paure come quando ti fai il cane: gli insegni a fare i bisogni fuori, c’è un orario… e dopo un po’ si educa, ma sta in casa. Le paure qua non si vincono, le addomestichi, impari a viverci”.
Le dimissioni di Ratzinger
Nell’antichità c’era la convinzione che i monaci svolgessero un particolare tipo di servizio alla comunità: i demoni inseguivano i padri nel deserto per tentarli, e così lasciavano in pace gli altri cristiani. Don Giuseppe Forlai non ha dubbi che il diavolo esista: “Per quattro anni – racconta – ho fatto l’assistente dell’esorcista diocesano. Mi ricordo che nel 2013 un uomo a cui stavamo facendo un esorcismo ci disse: “Tanto la prossima settimana il vostro Papa finisce”: pochi giorni dopo Benedetto XVI si dimise…”. Lei capisce anche lo scetticismo di chi a queste cose non crede? “Certo!”, replica, “finché non le vedi con i tuoi occhi…”.
Carcere e vocazione
In Italia gli eremiti censiti sono un centinaio. Il sacerdote romano ha capito la sua vocazione quando ha fatto il cappellano in carcere, dapprima a Regina Coeli e poi per cinque anni a Rebibbia femminile: “Stando coi detenuti e le detenute, pregando con loro, cercando di capire la loro vita chiusa in ambienti ristretti”, ricorda, “ho iniziato a pensare a che cos’è la libertà, che non è data dal posto, dallo spazio, dal tempo”. In quegli anni ha accompagnato la psicologa nei colloqui con i carcerati, più tardi ha ottenuto un master in terapia emozionale di gruppo: “Non ho mai trovato contraddizione tra le leggi della vita spirituale e la psicologia”, chiarisce. “Se non avessi fatto il cappellano in carcere non sarei mai arrivato qui, e nei momenti più difficili dello stare qui”, aggiunge don Forlai, “penso sempre a loro”.
Alla scrivania col Papa
Per ottenere l’autorizzazione a diventare eremita, il sacerdote romano è andato a trovare il suo vescovo: “Con papa Francesco – racconta – ci siamo messi lì alla scrivania e abbiamo rivisto insieme la regola di vita”. Jorge Mario Bergoglio ha però chiesto a don Forlai di non lasciare il suo incarico precedente di padre spirituale del seminario romano. E così il sacerdote continua a ricevere a casa sua i futuri sacerdoti in formazione. “Senza silenzio non c’è ascolto”, spiega: “La vita eremitica è una vita di ascolto, Dio parla anche attraverso il fratello che viene a trovarti”.
Un prontuario anti-abusi
Con lo psicologo del seminario, Luca Strambi, don Forlai ha stilato un breve prontuario per mettere in guardia i seminaristi dal rischio di abusi. “Il germe dell’abuso c’è in tutti noi”, avverte: “L’abuso è una forma di potere, lo spirito di dominio è un rischio comune”. Bisogna vigilare, soprattutto nelle comunità dove le persone non sono autonome e mature: “Gli ambienti dove non si fa un passo da soli, dove le differenze sono appiattite, dove c’è un gregariato esasperato sono spesso luoghi dove si vive la manipolazione e l’abuso”. Nei confronti delle suore, in particolare, il rischio della dipendenza e delle diverse forme di abuso è “diffusissimo”.
Come Adamo
La solitudine è la condizione necessaria per vivere una buona vita di comunità, dice l’eremita romano. Il prezzo da pagare è il deserto del silenzio. “Quando sei un eremita sei come Adamo, ricominci da zero. Ti devi ascoltare, devi capire quello di cui hai bisogno davvero, e devi dartelo, e devi capire quello di cui senti il bisogno ma non è autentico, e devi non dartelo”. È questa la vera sfida: “Puoi scappare in cima al mondo ma non c’è niente da fare”, dice don Forlai: “La persona più difficile con cui dobbiamo vivere siamo noi stessi”.