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 2024  maggio 15 Mercoledì calendario

Intervista a Pierfrancesco Pingitore


Nato a Catanzaro, ma romano d’adozione?
«Esatto. Vivo nella Capitale da quando avevo 2 anni. Mi definisco un “calabrotto” – risponde scherzando Pier Francesco Pingitore, creatore dello storico locale capitolino «Il Bagaglino» —. Da sempre amo la storia romana, il dialetto romanesco spiritoso e al tempo stesso tagliente: è diventato il mio dialetto».
La sua carriera inizia da giornalista, poi però con Mario Castellacci, anche lui calabrese e giornalista, nel 1965 avete dato vita a quel cabaret teatrale in una cantina.
«Era un sottoscala, in via della Campanella, nel cuore del centro storico, zona via di Panico, dove un tempo bazzicava la malavita, c’erano pure le case di tolleranza. Per fortuna, quando arrivammo noi, era stata bonificata e ormai piena di botteghe di artigiani che non esistono più: il tappezziere, il carpentiere, il carrettiere, il sediario e inoltre il “macellaro”, molto più apprezzato del “tripparolo”».
Perché?
«La carne del macellaio è un conto, la trippa è un altro... C’era uno stornello che recitava: “Prima eri la stella dei macellari, mo’ sei lo spasso dei tripparoli”. E la cantina, in passato, era un deposito di fiaschi, bottiglie, damigiane... umida e malconcia. Riuscimmo a concordare, con il proprietario, un affitto di 150 mila lire al mese, oneroso... Facemmo dare un’imbiancata e all’ingresso mettemmo un cartello, con su scritto: “Panico dorme, non conviene svegliarlo”... per dire ai nostri spettatori: quando uscite dal locale non fate casino».
Per non risvegliare la malavita?
«Ma no! Quella era stata una malavita con un suo codice d’onore... per esempio, non circolava la droga».
Perché il nome Bagaglino?
«Da Bragaglia, il grande regista, fondatore del Teatro degli Indipendenti: lo conoscevo bene, era una firma del settimanale Lo Specchio, dove ero caporedattore. Dopo la sua scomparsa, in suo onore volevo chiamare il locale Bragaglino, ma sua figlia ci impedì di usarne il nome e Castellacci disse: togliamo la erre».
Lo spettacolo del debutto?
«“I tabù”. Pensavamo che sarebbero venuti a vederci quattro amici e, invece, tutta Roma! Ci chiamò persino l’ambasciata americana, per chiederci quattro posti per Jacqueline Kennedy, in visita nella Capitale».
Bella soddisfazione!
«Sì, ma il nostro spazio poteva contenere 60 persone, e quella volta avevano già prenotato oltre 160! La nostra segretaria urlò al telefono: è tutto pieno!».
Qual è la Roma dell’epoca nei suoi ricordi?
«Tra la fine anni ‘50 e i primi ‘60, il ricordo principale è la Dolce vita in via Veneto: un fiume in piena, adesso un fiume in secca. Prima di fondare il Bagaglino, la sera correvo al Café de Paris, mi tuffavo in quel frenetico viavai di personaggi più o meno famosi. Tra i tanti, Maurizio Arena, molto ricercato dalle signore aristocratiche, infatti ebbe una relazione con Maria Beatrice di Savoia, si divertiva a dire: “C’ho le principesse ar parcheggio che m’aspettano”. Re Faruk: essendo musulmano, beveva solo aranciate e, quando alle 2 di notte usciva dal locale, si infilava di corsa nella limousine per non farsi fotografare. Liz Taylor, che mangiava alla Taverna Flavia, anche lei perseguitata, insieme a Richard Burton, dai paparazzi...».
Federico Fellini?
«Ovviamente sì. Federico divenne poi un frequentatore assiduo del Bagaglino, diventammo amici in quel nostro locale fumoso di sigarette che aveva un effetto quasi psichedelico. Si iniziava alle 10 di sera per finire all’una di notte, con l’intervallo delle pennette all’arrabbiata, servite agli spettatori. Dopo la chiusura, in pochi amici andavamo a mangiare dal buiaccaro a piazza del Gesù e concludevamo il giro nella bottega di Pino il pasticcere, che ci riempiva di golosità. Andavamo a dormire alle 6 del mattino».
Una Roma molto diversa da quella attuale?
«Ci lamentavamo di una città poco pulita e priva di servizi, poi si è verificato un degrado galoppante che oggi, a mio avviso, ha raggiunto il massimo: strade coperte di rifiuti, alberi che cascano, erbacce nel centro storico. Non esisteva la delinquenza attuale: non erano tutte rose e fiori, certo, ma a girare di notte non si aveva paura».
Sul vostro palco, tanti i protagonisti: Oreste Lionello, Pino Caruso, Tony Cucchiara, Gabriella Ferri...
«Con il mio socio, non conoscevamo Gabriella. Quando la sentimmo cantare, rimanemmo a bocca aperta: la voce straordinaria, i suoi occhi splendidi e soprattutto una personalità eccezionale, nata per il palcoscenico. Quando cantò “er barcarolo va contro corente...”, ci fece venire i brividi per l’emozione».
Nel 1972 traslocate dal Bagaglino al Salone Margherita, a via Due Macelli, café-chantant della Belle Epoque.
«La cantina di via della Campanella, ormai, ci andava un po’ stretta e poi, con quell’umidità, io soffrivo di dolori reumatici pazzeschi. Il Salone, che aveva avuto una storia gloriosa, era destinato a fallire e il proprietario, il cavalier Marino, disperato: accettò di darci la gestione. Gabriella interpretò la canzone Dove sta’ Zazà e fu un successo stratosferico».
Pingitore: «L’ambasciata Usa mi chiese dei posti per Jackie Kennedy. Misi la mano di Andreotti dentro la Bocca della Verità»
Andreotti imitato da Oreste Lionello e Leo Gullotta nella parte della signora Leonida (Ansa)
Quella volta che salì sul palco del Salone Margherita Giulio Andreotti?
«Troppo divertente... Ospitavamo spesso dei personaggi politici: sia reali, sia imitati da Oreste Lionello, Pippo Franco, Leo Gullotta. Avevamo fatto realizzare a grandezza naturale la riproduzione, in polistirolo, della Bocca della Verità, l’antico mascherone in marmo di Santa Maria in Cosmedin. Venne il vero Andreotti e, prima di fargli una domanda, gli dicemmo che doveva infilare la mano nella fatidica bocca, quindi rispondere la verità...».
Quale domanda e quale risposta?
«Gli chiedemmo: lei vorrebbe fare il Presidente della Repubblica? E lui rispose: la mia aspirazione è diventare Papa...».
Il Salone Magherita è chiuso dal 2020...
«L’ultimo spettacolo è stato La Presidente, interpretata da Valeria Marini: aveva un lungo programma di repliche, ma venne bloccata dal Covid. Finita la pandemia, abbiamo tentato in tutti i modi di riaprire il locale, che è della Banca d’Italia, ma ancora non ho notizie certe».
Potrebbe diventare un supermercato?
«A due passi da piazza di Spagna: siamo matti? C’è l’obbligo di destinazione d’uso e il vincolo delle Belle arti, non può essere utilizzato a fini commerciali».
Roma va rispettata...
«È una città che ha sempre ingoiato le persone che volevano farsi ingoiare, ma bisogna amarla per la sua storia millenaria, per la sua bellezza e anche per i suoi vizi, tra geni e furfanti. È davvero Roma Capoccia».