Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 14 Martedì calendario

Intervista ad Alessia Regazzoni, figlia di Clay

Aveva un papà che andava di corsa, ma mai di fretta. Perché il tempo per un sorriso lo trovava sempre. Persino sul bordo di una parabolica a trecento all’ora. Un lampo rosso che portava l’Italia nel mondo, anche se sul suo casco c’era la bandiera della Svizzera. Era un pilota e certo un uomo d’altri tempi che sono sempre i più belli. Apparteneva a quella schiera di eletti che non aveva bisogno di trofei per mostrare il proprio valore: si chiamava Regazzoni, Clay Regazzoni, indimenticabile pilota della Ferrari. Una vita al limite e un’eredità portata con orgoglio da sua figlia Alessia. La svolta per Clay dopo il terribile incidente nel Gran premio di Long Beach del 1980 che lo rese paraplegico dopo un calvario di interventi chirurgici. Ma anche in carrozzina restò un combattente: lottò per i diritti dei disabili e corse diverse Parigi-Dakar. Diceva: «Se è capitato a me è perché sono un uomo famoso e posso essere di esempio al mondo dei disabili». Perse la vita in autostrada una sera di dicembre del 2006. Viaggiava a ottanta all’ora.
Alessia, cominciamo dal nome inconsueto: Clay. C’entra qualcosa Cassius Clay?
«No. In casa lo chiamavano Clyde. Credo fosse il personaggio di un film americano. Sulla carta d’identità c’era scritto Gian Claudio».
Il cognome, Regazzoni, rimanda subito all’Italia.
«I Regazzoni venivano dalla provincia di Bergamo. Emigrarono nel Canton Ticino. Mio nonno Pio divenne sindaco di Porza. E fu eletto per ventotto anni. Non erano ricchi ma benestanti».
Com’era Clay in famiglia?
«Introverso. Diverso da come appariva in pubblico. Noi figli avevamo persino un po’ di soggezione. Era severo, esigente».
Invece in pubblico si trasformava?
«Adorava stare in mezzo alla gente. Giulio Borsari, lo storico meccanico della Ferrari, diceva sempre: Clay è uno di noi».
La passione per l’auto sboccia presto.
«Suo papà aveva una carrozzeria a Mendrisio e lì Clay cominciò a sentire e amare il rombo dei motori, a sporcarsi le mani d’olio. A imparare a guidare».
Entrare nel mondo delle corse non era facile.
«Lo introdusse un pilota svizzero: Silvio Moser. È stato il primo a intuire il suo talento. Poi Moser morì in un incidente a Monza».
Per arrivare alla Formula Uno non bastava il talento.
«Esordì che aveva già trent’anni. Veniva dalla Tecno in Formula Due. Una scuderia bolognese. Enzo Ferrari lo notò e lo mandò a chiamare dal suo factotum Franco Gozzi. Mio padre pensava fosse uno scherzo».
Arrivò tardi, ma vinse subito.
«Sì, a Monza nel 1970. La sua pista. Indimenticabile. I tifosi invasero il circuito e lo portarono in trionfo. Monza impazzi di gioia».
Eroe in Italia, semisconosciuto in Svizzera.
«Da noi era ed è così per tutti i personaggi famosi. A Lugano nessuno mi faceva sentire la figlia di un campione».
Quando capì che suo padre era qualcuno?
«Appena arrivavamo alla frontiera con l’Italia. Era come entrare in un altro mondo. I doganieri lo riconoscevano e gli chiedevano foto e autografi. E lo tempestavano di domande sulla Ferrari».
Lo seguivate sui circuiti in giro per il mondo?
«Durante l’anno no. Non potevamo lasciare la scuola. In estate andavamo in Inghilterra, a Silverstone e in Olanda, a Zandvoort. E poi Monza. Irrinunciabile».
E sua madre Maria Pia? Era come le mogli dei piloti di quegli anni che stavano appollaiate sui trespoli con il cronometro in mano?
«Sì, anche lei seguiva le corse dai box. Solo a Monza potevamo venire, ma per i giorni delle prove. La domenica della gara mio papà non ci voleva».
Aveva paura?
«Sì. anche se papà la rassicurava e diceva che la paura è fatta di niente».
Ci capiva di corse?
«Mia madre era appassionata da prima di conoscerlo. Il suo idolo era Jim Clark, lo scozzese volante che gareggiava con la Lotus».
Il primo incontro?
«Il colpo di fulmine a Montecarlo. Papà ci era andato per una gara di Formula 3, mamma con degli amici. A Lugano, dove vivevano entrambi, non si erano mai visti».
Le corse, allora, erano uno sport pericoloso.
«Una volta Jacky Ickx (anche lui pilota Ferrari, ndr) disse che quando i piloti si vedevano al giovedì prima della corsa si guardavano e pensavano: magari lunedì qualcuno di noi non ci sarà più. Mio padre non ci pensava alla morte. Quando deve arrivare il tuo momento non puoi farci nulla. Infatti è morto mentre viaggiava a 80 all’ora».
Credeva in Dio?
«Sì, molto. Aveva una spiritualità profonda. Sua suocera gli aveva cucito la medaglia della Madonna all’interno della tuta che si metteva per correre. Jean-Pierre Beltoise, altro grande pilota di quegli anni, diceva che Clay Regazzoni si era accaparrato gli angeli».
Con un padre pilota lei non avrà avuto bisogna della scuola guida?
«Mi insegnò a guidare un’amica quando andavo in vacanza nel Sud Italia. Poi la scuola guida in Svizzera».
E papà niente?
«Ci ha provato una volta. Andavo a 50 all’ora. E lui: Alessia vai troppo piano, devi avere una guida più sportiva! Il giorno dopo sono tornata dall’istruttore...».
Però andava in auto con lui?
«Sì, anche se andava veloce. Gli dicevamo: guarda papà che il limite è 80 e lui rispondeva: sì però va moltiplicato per il numero dei passeggeri!».
In privato che auto guidava?
«Mercedes. Certo le sue preferite restavano le Ferrari, ma non sono auto da tutti i giorni».
Portò Niki Lauda alla Ferrari dalla Brm. Però il campione austriaco non fu troppo riconoscente.
«Erano amici. Niki veniva spesso a Lugano. Mia mamma aveva legato con la fidanzata di Niki, Mariella von Reininghaus».
Però in Ferrari trattavano meglio Niki?
«È vero. Un meccanico disse a mio padre che la Goodyear dava a Lauda le gomme migliori e la Ferrari il motore più fresco».
Ha visto il film Rush?
«Sì».
Le è piaciuto?
«Favino è bravissimo, ma ha interpretato mio padre come fosse uno scaricatore di porto. L’attore che ha fatto Lauda è stato più aderente al vero. E anche James Hunt è venuto una macchietta. Sembrava un donnaiolo tossicomane».
Viveur, danceur e a tempo perso pilota: così Enzo Ferrari accolse suo padre dopo un tango a Canzonissima con la Carrà.
«E papà ci restò male. Perché lui viveva per le corse. Poi con il Commendatore si chiarirono. Non erano uomini che lasciavano le cose in sospeso. E non portavano rancore. Si stimavano molto».
Correre per la Ferrari.
«Il sogno di ogni pilota. L’anno che lasciò la Rossa rimase sorpreso. Si aspettava che qualcuno glielo dicesse prima visto, che Carlos Reutemann aveva già firmato a settembre».
A quarant’anni la rivincita. Portò la Williams al primo successo. I nuovi sponsor erano la famiglia di bin Laden.
«Erano tanti fratelli, più di 40 ma non c’era il futuro capo di al Qaeda».
Chi erano i suoi amici nel circus?
«Mario Andretti, Arturo Merzario e Jacques Laffite».
Un pilota che ammirava?
«Ayrton Senna».
E uno in cui si rivedeva?
«Gilles Villeneuve. Come lui correva per il gusto di correre. Vincere veniva dopo».
Sua figlia, la nipote di Clay, Sofia ha partecipato a corsi di pilotaggio.
«Non ha conosciuto il nonno, ma sa tutto di lui. Ha una vera passione per i motori che in qualche modo gli è stata trasmessa».
Cosa le ha lasciato suo padre?
«Il coraggio».