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 2024  maggio 14 Martedì calendario

Sulla rivolta ungherese del 1956

Le manifestazioni ungheresi dell’ottobre 1956 sanguinosamente represse dai carri armati sovietici possono oggi essere considerate una delle poche, autentiche «rivoluzioni» del Novecento. Fu – Stefano Bottoni in L’Ungheria dagli Asburgo a Viktor Orbán. Il passato come prigione, pubblicato da Scholé – «una grande rivolta popolare, spontanea, imprevista nelle proporzioni e nelle conseguenze». Bottoni conferma un giudizio che da quasi quarant’anni è stato fatto proprio dagli stessi ex appartenenti al Partito comunista italiano che, all’epoca, si era schierato – pur tra qualche contorcimento – dalla parte dell’Urss. Ricorrendo, secondo Bottoni, al «macabro lessico togliattiano» che aveva ridimensionato gli eventi del 1956 ribattezzandoli «fatti d’Ungheria». Anche se è prevedibile che ci sarà prima o poi qualcuno che, sulla scia della guerra russa all’Ucraina, riproporrà la versione degli accadimenti che diede allora il Pci, schierandosi dalla parte del Pcus.
Ma, prima che ciò avvenga, Bottoni ricostruisce in modo impeccabile quel che avvenne davvero. Con riferimenti più o meno espliciti ai libri nei quali è stato aperto un varco su quella rivolta che segnò la storia mondiale. Dei «classici» su questo tema sono da considerare i libri di François Fejtö tra cui quello, con prefazione di Jean-Paul Sartre, Ungheria 1945-1957 (Einaudi) che, nel titolo francese, definisce l’accaduto una «tragedia». Nella sinistra italiana lo studioso che per primo ha approfondito con scrupolo ogni tipo di documentazione sui «fatti» di Budapest, è stato Federigo Argentieri, i cui libri – tra i quali Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata (Marsilio) – sono ancor oggi importanti per chi intenda avvicinarsi all’argomento. Ma non si può non menzionare Jean-Marie Le Breton che – nella parte dedicata all’Ungheria di Una storia infausta. L’Europa centrale e orientale dal 1917 al 1990 (il Mulino) – ha ricostruito l’intera vicenda con grande acume e precisione.
Nel libro di Bottoni, però, c’è qualcosa di più. Si parte dal riassunto di quel che accadde a partire dalla serata del 23 ottobre, quando le autorità tentarono di disperdere l’enorme folla che protestava per chiedere riforme politiche. Ne nacque una rivolta forse imprevedibile che «determinò il collasso improvviso delle strutture di potere». E che divenne con i due interventi sovietici (24 ottobre, successivamente il 4 novembre) una «rivoluzione nazionale». La lotta armata coinvolse 10-15 mila persone e indirettamente gran parte della popolazione civile. Fino alla resa delle ultime unità partigiane intorno a Budapest e sui monti Mecsek nella zona sud-occidentale del Paese (11 novembre).
Secondo Bottoni in quelle tre settimane il conflitto assunse addirittura il «carattere di una breve guerra per l’indipendenza». Termine che, sostiene l’autore, non «deve sembrare esagerato». In meno di tre settimane morirono per i combattimenti oltre duemilacinquecento ungheresi, in larghissima parte «civili in armi». L’80 per cento apparteneva al ceto operaio e la metà di loro aveva meno di trent’anni. Anche le perdite sovietiche furono significative «nonostante l’enorme sproporzione delle forze in campo»: 722 morti (a cui vanno aggiunti il doppio tra feriti e dispersi). Quella combattuta in territorio ungherese, «soprattutto ma non solo nel cuore della capitale», fu una guerra breve «ma ad alto contenuto di violenza e punteggiata da atrocità».
A capo di questa «rivoluzione» si ritrovò senza averlo pianificato l’allora primo ministro Imre Nagy, un «comunista educato al culto di Stalin e dell’Unione Sovietica», sopravvissuto nella Mosca degli Anni Trenta dove aveva appreso «l’arte di posizionarsi nelle lotte di potere». Questa «prudenza tattica» lo agevolò dopo il 1948, quando ricoprì ruoli importanti senza mai essere arrestato. Alla vigilia della manifestazione studentesca del 23 ottobre – a riprova che neanche immaginava quel che stava per accadere – Nagy si trovava, per la vendemmia, nei vigneti del lago Balaton. Il susseguirsi degli eventi «lo colse del tutto impreparato» ed esitò almeno una settimana prima di mettersi alla testa del movimento. Decise soltanto quando si fece l’idea che la rivolta ungherese avrebbe avuto come esito un negoziato «simile a quello appena ottenuto dalla Polonia di Wladyslaw Gomulka». Ma i sovietici non si fidavano di lui. A maggior ragione quando Nagy ruppe il «grande tabù» proclamando la «neutralità» del Paese e annunciando nel contempo «l’uscita dal Patto di Varsavia». Con quel gesto, scrive Bottoni, Nagy «attraversò un confine invalicabile nell’impero ideologico sovietico» riconoscendo nei fatti la «legittimità della resistenza armata» e stabilendo un esplicito collegamento ideale con la lotta per l’indipendenza del 1848-49.

All’alba del 4 novembre (dopo la seconda invasione dei carri armati sovietici) lanciò un appello radiofonico alla resistenza in armi pronunciando due frasi che non rispondevano al vero: «le nostre truppe stanno combattendo»; «il governo è al suo posto». I soldati, invece, erano rimasti consegnati in caserma. E lui fu il primo a cercar riparo nell’ambasciata jugoslava sotto la protezione di Tito. Nel frattempo, l’Ungheria si avviava a subire l’ecatombe di cui si è detto. Gli insorti speravano di ricevere aiuti dall’Occidente. Secondo Victor Sebestyen – in Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico (Rizzoli) – non v’è dubbio che gli ungheresi furono incoraggiati a ribellarsi. Soprattutto dai servizi segreti statunitensi. Ma quando i rivoluzionari ebbero bisogno d’aiuto, «Washington se ne lavò le mani». E «gli ungheresi furono abbandonati a sé stessi». Forse non erano pronti per una battaglia all’ultimo sangue. Tuttavia, si sentirono ugualmente «traditi» dall’America e dall’intero mondo occidentale. Perché? Europa e Stati Uniti non se la sentirono di violare i confini disegnati nel 1945. Probabilmente, sostiene Marcello Flores – in 1956 (il Mulino) – il segretario del Pcus Nikita Krusciov si sentì libero di muoversi in modo drastico per la contemporanea crisi di Suez.
Dopo qualche giorno, i sovietici catturarono Nagy e lo portarono a Snagov, in Romania, dove l’ormai ex primo ministro rimase in stato di detenzione fino all’aprile del 1957. Nei mesi di prigionia, Nagy scrisse un diario dove esplicitò il suo disegno: «indirizzare la sollevazione verso un progetto di unità nazionale», sintetizza Bottoni, «per preparare una transizione pacifica a una socialdemocrazia multipartitica». Proprio quello che i sovietici non volevano.
Riportato in Ungheria, Nagy venne mandato a processo per volontà del suo successore, János Kádár (e dei sovietici che confidavano in un suo pubblico pentimento ma ancor più in una pubblica denuncia delle «sollecitazioni venute dalla Cia»). Le autorità, secondo Bottoni, «speravano di trasformare il dibattimento in un film di propaganda». Ma Nagy mandò a monte i loro piani, rifiutò di abiurare la rivoluzione e di riconoscersi colpevole dei crimini che gli venivano imputati. Forse anche perché, memore delle esperienze degli Anni Trenta, non si fidava delle promesse dei suoi persecutori. Ma soprattutto per il fatto che era un uomo profondamente cambiato. La condanna alla pena capitale fu eseguita all’alba del 16 giugno 1958. Il cadavere fu trasportato ai margini del cimitero di Budapest e tumulato con un nome diverso dal suo. Solo nell’agosto del 1958 la moglie e la figlia che erano rimaste imprigionate in Romania – racconta David Irving in Ungheria 1956. La rivolta di Budapest (Mondadori) – appresero che era stato giudicato e condannato a morte. A loro fu concesso di tornare in patria soltanto nel dicembre di quell’anno. Alcune settimane dopo il loro rientro, prosegue Irving, un funzionario mandato dal ministero degli Interni suonò alla porta della signora Nagy e le consegnò un pacco avvolto in carta scura che conteneva gli effetti personali di suo marito: un abito, la giacca dello smoking, gli stivali, l’orologio e una fede che però non era la sua. «Anche il pince-nez era sparito», riferì la moglie. Corse voce in seguito che qualcuno aveva visto Nagy in Crimea, che il suo ex compagno Kádár non lo aveva fatto impiccare, ma lo aveva risparmiato. Si trattava ad ogni evidenza di leggende diffuse dal nuovo regime al fine di disperdere nella nebbia quell’ultimo crimine.

Quanto al personaggio Nagy, resta alla storia che – hanno scritto Ferenc Fehér e Agnes Heller in Ungheria 1956. Il messaggio di una rivoluzione oltre un quarto di secolo dopo (Sugarco) – «nelle sue ultime parole giunteci con molto ritardo, l’uomo che fu artefice, arbitro, martire e simbolo di una rivoluzione assassinata, respinse apertamente l’offerta vergognosa e ridicola di riabilitazione da parte di coloro che lo stavano per uccidere e che effettivamente lo uccisero». In questo modo divenne un eroe nazionale. La «rivoluzione più scandalosa del Novecento», ispirata da un nucleo di comunisti riformatori, era finita nelle ore decisive in mano ad «un vecchio dirigente trovatosi sull’onda degli eventi a lottare contro il cuore del comunismo mondiale». Una vicenda – ha scritto Enzo Bettiza in 1956. Budapest, i giorni della rivoluzione (Mondadori) – che «peserà sempre come un rimorso storico sulle coscienze deboli dell’Occidente», le quali ancora oggi «evitano di inscrivere la data del 1956 negli annali delle grandi rivoluzioni europee».
Ciò detto, osserva Bottoni, per uno dei tanti paradossi della storia ungherese, la gloriosa sconfitta del 1956 aprì la strada ad una sorta di compromesso con l’Unione Sovietica così come quella del 1849 aveva preceduto il riavvicinamento a Vienna. Quel dramma partorì la stagione più tollerante del cosiddetto «socialismo al gulash». Kádár fu capace di trasformare il sistema così come gli Asburgo avevano fatto nella transizione da Julius Jacob von Haynau (il generale che aveva brutalmente stroncato i moti insurrezionali del 1848-49) a Francesco Giuseppe e come l’ammiraglio Miklós Horthy (erede della fallita rivoluzione, nel 1919, di Béla Kun) aveva saputo fare negli anni Venti mitigando la violenza controrivoluzionaria. Ma con una differenza fondamentale. La monarchia asburgica e l’Ungheria di Horthy «si dissolsero in modo violento e caotico dopo lunghi periodi di apparente stabilità, avviando processi regressivi e distruttivi». Mentre il sistema evolutivo di Kádár non oppose alcuna resistenza alla transizione democratica del 1988-90.

Anche se l’affermazione di questo «sistema evolutivo» non era stata certo indolore. Il consolidamento di Kádár al potere si accompagnò ad una vasta repressione politica che colpì non solo i partecipanti alla rivoluzione, ma anche gli oppositori latenti e potenziali. Quasi duecentomila persone, calcola Bottoni, lasciarono il Paese. Molti di loro per sempre. Fra il dicembre 1956 e il marzo 1963, quando un’amnistia segnò la fine delle repressioni di massa, le corti popolari comminarono 229 sentenze capitali (eseguite), tredicimila internamenti temporanei e oltre ventimila condanne al carcere.
Come negli altri Paesi del blocco sovietico, rileva ancora Bottoni, tra il 1958 e il 1961 le campagne furono scosse da una nuova ondata di collettivizzazione, non meno violenta di quella dei primi anni Cinquanta, al termine della quale il terreno arabile fu rilevato dalle fattorie statali. Ma il dramma che si era consumato tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1956 suggerì a Kádár di condurre – con il consenso dei sovietici – una politica agraria più flessibile e intelligente di quella di dieci anni prima. Ai contadini, che rappresentavano oltre un terzo della popolazione attiva, fu concesso di conservare un orto privato, gli attrezzi e gli animali domestici. Ai membri delle cooperative fu estesa la previdenza sociale. E venne loro assegnata una pensione di anzianità. Nel 1962, all’VIII congresso del Partito comunista, fu annunciato che gli iscritti erano cresciuti fino a superare il mezzo milione (quasi un decimo della popolazione adulta). E furono poste le basi di una dittatura appena più morbida della precedente. Che però fu universalmente considerata un accomodamento. Quantomeno fu tale da sconsigliare agli ungheresi di avventurarsi una seconda volta lungo i sentieri battuti nel drammatico frangente dell’autunno del 1956. Neanche nel 1968, allorché i cecoslovacchi tentarono a loro volta di sperimentare una via democratica al socialismo (la cosiddetta «primavera di Praga»). Guadagnandosi anche loro una «visita» dei carri armati sovietici.